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 2014  agosto 02 Sabato calendario

QUELLA STRISCIA MAI AMATA DAL CAIRO

[tre articoli di Yehoshua] -
La creazione di una striscia costiera intorno alla città di Gaza, lunga 40 chilometri e larga una decina per un’area complessiva di 365 chilometri quadrati, risale alla fine della guerra del 1948, 64 anni fa. La guerra scoppiò subito dopo l’approvazione della risoluzione dell’Onu che sanciva la creazione di due stati nell’allora Palestina, uno ebraico e l’altro arabo, di dimensioni uguali.
I palestinesi e gli stati arabi non accettarono questa risoluzione e si preparano a distruggere il neonato stato ebraico. Al termine del mandato britannico, il 15 maggio 1948, gli eserciti di tre paesi arabi invasero la Palestina: quello giordano a Est, il siriano a Nord e l’egiziano a Sud, per cercare di annientare lo stato di Israele. Dopo aspre battaglie gli israeliani riuscirono a respingere l’attacco giordano (che aveva messo sotto assedio Gerusalemme), a cacciare quello siriano dalla Galilea e a fermare quello egiziano a soli 78 chilometri da Tel Aviv. Al termine degli scontri, nelle mani dei palestinesi rimase solo metà del territorio loro assegnato dalla risoluzione Onu. In quel territorio non venne fondato un nuovo stato palestinese ma rimase sotto il controllo di due paesi: la Giordania in Cisgiordania, e l’Egitto nella Striscia di Gaza. I giordani, che consideravano la Cisgiordania una possibile parte del loro regno, conferirono la cittadinanza ai profughi palestinesi stabilitisi a est del Giordano e protessero i luoghi santi di Gerusalemme est. Poiché si sentivano vicini ai palestinesi da un punto di vista etnico mantennero con loro rapporti relativamente buoni e ne garantirono il libero transito verso altri paesi arabi.
Ma la situazione era diversa nella Striscia di Gaza. Gli egiziani trattarono con durezza i palestinesi della Striscia, isolati dai loro fratelli e dal loro popolo in Cisgiordania. Li consideravano un inutile peso, un grattacapo piombato loro addosso a causa della sconfitta subita contro Israele, del quale continuavano a non riconoscere la legittimità e con il quale avevano concordato una tregua incerta. I numerosi profughi palestinesi, cacciati o fuggiti dai loro villaggi durante la guerra del 1948 e affollatisi nella Striscia, venivano considerati dagli egiziani un popolo problematico e distaccato dalle sue radici. Va inoltre detto che la Striscia di Gaza è lontana dalle città egiziane, dalla quali è separata dal Canale di Suez e dal deserto del Sinai. Gli egiziani, quindi, non concessero mai la cittadinanza ai residenti di Gaza e, in pratica, rimasero in attesa del momento in cui si sarebbero potuti sbarazzare di questa regione che ricordava loro la sconfitta militare subita nella guerra del 1948.
La crudeltà degli egiziani contro la popolazione di Gaza risvegliò l’ostilità di quest’ultima ed echi di questo sentimento sono tuttora visibili nella guerra in corso. Nonostante infatti le melliflue parole di solidarietà, tra egiziani e palestinesi di Gaza c’è una costante tensione che oggi si manifesta con tutta la sua forza. I primi accusano i secondi di intromettersi negli affari interni del loro paese e partecipano quindi attivamente al blocco brutale a loro imposto negli ultimi anni.
La Striscia di Gaza rimase sotto il controllo dell’Egitto fino al giugno del 1967, a eccezione di un brevissimo periodo - qualche mese - dopo la campagna del Sinai, nell’ottobre 1956. Allora Israele sconfisse l’esercito egiziano e conquistò l’intero deserto del Sinai e, nell’impeto dell’avanzata, senza difficoltà e in un solo giorno, anche la Striscia di Gaza. Al termine di quella breve guerra, alla quale presero parte anche Francia e Gran Bretagna, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica imposero, congiuntamente ed esplicitamente, a Israele di arretrare entro le linee dell’armistizio del 1948. Lo stato ebraico si ritirò dal deserto del Sinai nel giro di pochi mesi. Per un brevissimo periodo esitò se ritirarsi dalla Striscia di Gaza, che in ogni caso fa parte della Terra d’Israele/Palestina, ma, obbedendo all’ordine delle due potenze e incerto su come gestire quella regione affollata di campi profughi, retrocesse e Gaza fu riconsegnata all’Egitto che non ebbe altra scelta che quella di riprenderla sotto il suo patrocinio.
Nel 1967 scoppiò la Guerra dei Sei Giorni a causa dell’incontrollata e irresponsabile provocazione del dittatore egiziano Abdul Nasser. Per sei giorni Israele combatté con successo su tre fronti: a nord, contro i siriani, dove conquistò le alture del Golan, a est, contro i giordani, dove conquistò la Cisgiordania, e a sud, contro gli egiziani, dove occupò tutto il deserto del Sinai. E, ancora una volta, nell’impeto dell’avanzata, riconquistò in un solo giorno la Striscia di Gaza.
L’incredibile facilità con cui venne conquistata la piccola Striscia nel 1956 e nel 1967, malgrado la presenza di carri armati e dell’artiglieria egiziana, si contrappone all’attuale paura e difficoltà di penetrarvi dell’esercito israeliano (diventato molto più forte negli anni trascorsi da allora) e indica principalmente l’immenso cambiamento avvenuto nella determinazione, nella forza, nell’ingegno, nell’audacia e nella disponibilità al sacrificio dei discendenti dei profughi rispetto all’atteggiamento di sottomissione dei loro padri in passato.
Non è un caso che nel trattato di pace firmato con Israele nel 1979 gli egiziani rifiutarono di riprendersi la Striscia. Accettarono con gioia il deserto del Sinai ma lasciarono questa problematica regione nelle mani di Israele. Gaza è parte della Palestina, così stabilì chiaramente il presidente egiziano Anwar Sadat, e da ora in poi sarà un problema di voi israeliani come gestirla e come ricongiungere i suoi residenti ai loro fratelli in Cisgiordania per creare un’unica entità. Dopo tutto, nell’accordo di pace, vi siete impegnati a risolvere il problema palestinese, pur non avendo spiegato come.
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QUANDO ISRAELE TRASFORMO’ I PROFUGHI IN COMBATTENTI -
Subito dopo la Guerra dei Sei Giorni, nel 1967, l’allora membro della Knesset Arie Lova Eliav, uomo straordinario e di grande dirittura morale, chiese al primo ministro Levi Eshkol il permesso di assentarsi per sei mesi dai suoi doveri parlamentari e politici.
Voleva ispezionare i campi profughi di Gaza e della Cisgiordania così da rendersi conto delle condizioni e dei problemi dei palestinesi e studiare possibili soluzioni. Eshkol, che provava molta simpatia per Lova Eliav, suo braccio destro durante la costruzione dei centri abitati della regione di Lakhish e della città di Arad e attivo in missioni umanitarie in Iran e in Nicaragua quando questi due Paesi furono colpiti da terremoti, gli concesse il permesso.
Per sei mesi, in collaborazione con l’allora ministro della Difesa Moshe Dayan, Lova Eliav ispezionò i campi profughi e quando tornò da Eshkol gli sottopose soluzioni originali e pratiche.
Dopo averlo ascoltato Eshkol disse: «Sì, Lova, so che sei una persona seria e che se dovessi darti il mio benestare come al solito torneresti da me con progetti dettagliati, scadenze precise e preventivi affidabili. Ma non arrabbiarti se ti dico di lasciar perdere».
«Allora quale sarebbe la tua proposta per risolvere il problema dei profughi della guerra del ’48 ora sotto il governo di Israele?». Gli domandò Lova.
«La mia soluzione, rispose Eshkol, è che se ne vadano tutti, che scappino via».
«Che scappino dove?». Si stupì Lova. «E come?».
«Non lo so, borbottò Eshkol, ma sarebbe meglio se se ne andassero...».
La conversazione si concluse così. Lova, che voleva bene a Eshkol, attribuì quella bizzarra e inverosimile risposta alla stanchezza e alla malattia del primo ministro, il quale effettivamente morì poco tempo dopo. Nessun profugo però fuggì o se ne andò, come Eshkol avrebbe voluto. E i quattrocentomila abitanti e rifugiati della Striscia di Gaza del giugno 1967 sono diventati oggi un milione e ottocentomila.
I profughi non fuggirono non solo perché non avevano dove andare, e nessuno era disposto ad accoglierli, ma anche perché rimasero fedeli alla loro madrepatria e, con ostinata e pericolosa ingenuità, ancora sognavano di ritornare ai villaggi e alle città dai quali erano stati espulsi o erano fuggiti durante la guerra del 1948. E, nel frattempo, in attesa che quel sogno impossibile si avverasse, cominciarono a offrirsi come lavoratori a giornata nei centri abitati israeliani. La mattina presto partivano a frotte verso le città e i paesi israeliani dei dintorni (in fin dei conti anche Tel Aviv dista solo sessanta o settanta chilometri da Gaza), e la sera facevano ritorno alle loro case nella Striscia. Ricordo i loro vecchi taxi, grossi e robusti, che sfrecciavano sulle strade del Sud al tramonto, stipati di lavapiatti, di addetti alle pulizie, di muratori, di manovali, di braccianti agricoli e di operai. E forse fu proprio nelle fabbriche dove lavoravano che i palestinesi di Gaza cominciarono ad apprendere i primi rudimenti per produrre razzi artigianali e scavare gallerie. Sui portapacchi dei taxi erano impilati materassi, stoviglie e oggetti di vario genere, regalati dai datori di lavoro israeliani. Alcuni di quei palestinesi rimanevano a dormire vicino al loro posto di lavoro, in edifici fatiscenti, tende e fienili. «La capanna dello zio Ahmed», così definiva quelle precarie sistemazioni Lova Eliav che, nonostante fosse segretario generale del partito al potere, criticava aspramente la politica del governo suscitando la collera del nuovo, autoritario premier, Golda Meir, la quale, con maligna ingenuità, si domandava: e chi mai sarebbero questi palestinesi? Solo esseri umani che possono essere spostati da un posto all’altro e che di sicuro non possiedono una distinta identità nazionale. Quindi, nel 1973, sotto il governo del partito laburista, fu deciso di confiscare un terzo del territorio della povera e affollatissima Striscia di Gaza e di una parte non indifferente del suo incantevole litorale per insediarvi, proprio accanto agli squallidi campi profughi, ottomila ebrei, per lo più religiosi, che crearono prosperi centri agricoli. E in fondo perché no? Se nel corso della loro storia gli ebrei si sono stabiliti nella Qasba di Sana’a o di Marrakech, nelle città della Polonia, a Vilna, a Riga, a Kabul, a Baghdad e ad Aleppo, perché non avrebbero potuto insediarsi anche fra i miserabili campi profughi palestinesi e creare fiorenti comunità, convinti di avere a disposizione l’intero mondo? Com’è scritto: «Ecco un popolo che dimora solo, e tra le nazioni non si annovera» (Numeri, 23, 9).
Mai decisione fu più sbagliata e mai azione fu più stupida e immorale. Una parte dell’audacia degli odierni combattenti di Hamas deriva dalla rivolta contro quegli insediamenti e contro le numerose unità dell’esercito preposte a vigilare su di essi. Non è perciò un caso che proprio uno dei padri di quei disgraziati insediamenti, il primo ministro Ariel Sharon, decise di evacuarli e di ritirare le forze militari che li proteggevano. E così facendo diede al regime di Hamas una chiara sensazione di vittoria che alimenta ancora oggi la sua megalomania e le sue missioni suicide. E non dimentichiamo che Hamas, come movimento religioso, è anche frutto dell’incoraggiamento israeliano. Negli Anni Ottanta quando l’Olp (l’organizzazione per la liberazione della Palestina), cominciò a rafforzarsi, gli israeliani ritennero che sarebbe stato preferibile incanalare l’energia politica e nazionalista dei palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza verso istituzioni religiose. Sarebbe stato meglio se i palestinesi avessero pregato nelle moschee piuttosto che andare in giro per le strade a lanciare pietre contro gli israeliani. Ma, a quanto pare, le moschee e lo studio del Corano non hanno raffreddato l’estremismo politico e nazionale dei palestinesi, anzi. Lo hanno infiammato ancora di più.
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ALLA RICERCA DEL DIALOGO TRA NEMICI -
Mio figlio minore ha 40 anni, è padre di tre figli e, in quanto ufficiale dell’esercito, è stato richiamato al fronte. E mentre la guerra a Gaza continua, scrivo queste parole in preda a una profonda ansia per la sua sicurezza e con la preghiera che i combattimenti cessino. Subito dopo lo scoppio delle ostilità ho pubblicato articoli, in Israele e all’estero, in cui sostenevo che Hamas andrebbe visto come un nemico, non come un’organizzazione terroristica.
Pertanto si dovrebbe cercare un dialogo diretto con i suoi rappresentanti, analogamente a quanto abbiamo fatto con i nostri nemici in passato. Dei cari amici mi hanno fatto notare che alcuni articoli della piattaforma politica di Hamas parlano della necessità non solo di combattere Israele, ma di uccidere indiscriminatamente tutti gli ebrei.
Nonostante questa terribile e folle dottrina ideologica, che riporta alla memoria punti simili del programma del partito nazista in Germania, rimango fermamente convinto che si debba cercare con tenacia di avviare una qualche forma di dialogo con gli esponenti di Hamas perché si convincano ad abbandonare la strada della follia suicida. E, in effetti, delegazioni ufficiali di Israele e di Hamas hanno discusso al Cairo, seppur non in maniera diretta e con la mediazione dell’Egitto, un accordo per il cessate il fuoco e forse un’intesa di maggior respiro.
Se Hamas combattesse Israele e gli ebrei lontano dai nostri territori potremmo anche accettare il principio di non avviare nessun negoziato con questa organizzazione fino a che non cambierà completamente le sue posizioni ideologiche. Ma Hamas agisce molto vicino a noi, fra il milione e ottocentomila abitanti di Gaza che lo hanno eletto e che il suo governo controlla con il pugno di ferro. Questa gente sarà per sempre nostra vicina (come ho già ricordato, Gaza dista solo 70 km da Tel Aviv), e fa parte del popolo palestinese. Un milione e mezzo di palestinesi sono cittadini israeliani, nostri associati (almeno in linea di principio), e con gli stessi diritti di tutti gli altri residenti dello Stato ebraico. Altri tre milioni vivono in Cisgiordania, alcuni sotto il controllo dell’Autorità palestinese, con la quale Israele mantiene costanti contatti, e altri sotto quello dell’esercito israeliano. Ne consegue che tutti questi palestinesi, anche chi non approva l’ideologia di Hamas, sono strettamente legati a noi e, per solidarietà con la popolazione di Gaza, si aspettano che ne miglioriamo la sorte e la salviamo dall’isolamento. Abbiamo quindi il dovere di fare tutto il possibile per aiutare questo popolo il cui destino è intrecciato al nostro e, se questo significa avviare un dialogo con Hamas, non possiamo rifiutare di intraprendere questa strada.
Alla radice dell’integralismo di Hamas c’è infatti la lunga storia che ho cercato di illustrare nei miei articoli precedenti. Una storia di emarginazione, di repressione, di blocco economico (iniziato durante il governo egiziano della Striscia), di profughi senza speranze e dell’errore degli insediamenti israeliani che hanno portato via ai palestinesi una parte del loro ristretto e povero territorio fino a che, in forza della resistenza di Hamas, Israele è stato costretto a smantellarli e a ritirare l’esercito. Ed è a quel punto che è cominciato l’isolamento degli abitanti di Gaza dal resto del loro popolo. Ed è nel sopraccitato contesto che è nato il sentimento di ostilità che si è inasprito nel tempo, fino alle sempre più pericolose missioni suicide. Chi avrebbe mai potuto immaginare, venti o trent’anni fa, che gli abitanti della Striscia, poveri e privi di mezzi, sarebbero riusciti a paralizzare con il lancio di razzi la vita quotidiana del forte e progredito Israele? E, proseguendo la guerra, c’è il pericolo che i miliziani di Gaza siano di esempio per Iran, Siria e Hezbollah, dimostrando loro che, sparando missili, si può scombussolare e anche paralizzare la vita di Israele senza che quest’ultimo possa davvero impedirlo.
Il distacco della Striscia di Gaza da una parte del mondo arabo e dai loro fratelli oltreconfine da un lato spinge la sua popolazione all’indifferenza verso le numerose vittime e l’entità della distruzione e dall’altro a commettere azioni suicide, il più grande pericolo per Israele.
Per far uscire gli abitanti di Gaza da questo vicolo cieco, o dal tunnel in cui si sono trincerati (per usare una metafora pertinente) e nel quale vogliono trascinare anche noi, occorre predisporre un piano effettivo e ingegnoso dopo il cessate il fuoco che preveda non solo la ricostruzione e il risanamento delle ferite della Striscia ma, in primis, la fine del disperato isolamento dei suoi abitanti mediante il ripristino dei legami con i loro fratelli in Cisgiordania e in Israele. E questo ripristino deve coinvolgere Hamas, l’autorità ufficiale della Striscia, e il governo palestinese di unità nazionale istituito qualche mese fa e con il quale Israele ha poco saggiamente interrotto i rapporti.
Alla base della differenza fra una visione del mondo di destra e una di sinistra è la convinzione che gli esseri umani possono cambiare. Mentre la destra parla di mentalità, di destino, di carattere nazionale immutabile, la sinistra crede che uomini e nazioni possano trasformarsi. E questa era anche la convinzione alla base del sionismo, che confidava nella possibilità di cambiare gli ebrei e di renderli sovrani nella loro madrepatria.
Dopo la distruzione e le morti, a Gaza e in Israele, lo Stato ebraico non deve accontentarsi di accordi provvisori o di intese parziali, come al termine di scontri precedenti, ma deve prendere l’iniziativa e, con l’aiuto dell’Egitto e di altri Stati, ricostruire Gaza - il figliastro amareggiato e incollerito -, smantellarne i missili, distruggerne i tunnel ma, al tempo stesso, interromperne l’isolamento e ripristinare i legami col suo popolo mediante un «corridoio sicuro» che colleghi la Striscia alla Cisgiordania, come previsto negli accordi di Oslo. Un tunnel legittimo e ben strutturato di circa 30 chilometri, sotto la supervisione congiunta del governo di unità nazionale palestinese e di Israele.
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