Antonio Gnoli, la Repubblica 3/8/2014, 3 agosto 2014
PIERO OTTONE
[Intervista] –
Sei un maestro dell’understatement.
«Sono sincero. E, soprattutto, cerco di non prendermi troppo sul serio. Quando si scrive di sé si tende a esagerare. Posso dire di essere stato molto fortunato. Ho scelto la professione che mi piaceva e che è risultata giusta».
Riassumila in breve.
«Nel 1945 entrai come redattore alla Gazzetta del Popolo . A 23 anni il direttore, Massimo Caputo, mi spedì a Londra. Rimasi lì un paio d’anni. Poi andai in Germania. In seguito fui assunto al Corriere della Sera. Inviato a Mosca sotto Missiroli. Direttore del Secolo X-IX e infine torno al Corriere come direttore».
Al Corriere prendesti il posto di chi?
«C’era Spadolini, come direttore fu un disastro».
E per il resto?
«Una cara persona: vanitosissima e anche presuntuosa ».
Non hai mezze misure.
«Che devo dire, non si occupava del giornale. Si chiudeva nella sua stanza e intrecciava conversazioni lunghissime con i politici di Roma. Se era al telefono vedevi fuori della porta una lucina rossa accesa. Era il segno che per nessun motivo lo si poteva disturbare. Una volta Dino Buzzati, già malato, si portò uno sgabello e si sedette in attesa fuori della sua porta».
Un gesto polemico?
«Assolutamente. Che uomo stupendo, Dino. Faceva la terza pagina con eleganza, intelligenza, umiltà».
La tua direzione fu all’inizio molto contrastata.
«Sì, quando arrivai la redazione fece sciopero. Ero stato scelto da Giulia Maria Crespi. Mi invitò a colazione e a un certo punto disse: Piero, abbiamo pensato che lei sarà il prossimo direttore del Corriere ».
E tu?
«Ero sbalordito, dirigevo Il Secolo X-IX, stavo bene a Genova. Certo non potevo rifiutare».
Vuoi dire che non sapevi nulla del cambio in corso?
«In effetti, pochi mesi prima, c’era stato un episodio rivelatore. Nel 1971 Montanelli mi invitò a colazione a Roma. A un certo punto disse: Spadolini ha fatto il suo tempo. La famiglia Crespi vorrebbe dare la direzione a te e io sono d’accordo».
Strano che Montanelli desse il suo placet.
«Neanche tanto. È vero, come capii in seguito, che non gli sarebbe dispiaciuto essere lui alla direzione, però era felice del suo mestiere, delle cose che faceva. Ad ogni modo, quando fui nominato, mi telefonò da Cortina e disse: sono con te, ma il modo in cui ti hanno scelto è sbagliato. E poi venne, come ti dicevo, lo sciopero».
Cos’è che non andava nella tua nomina?
«Che fosse avvenuta improvvisamente, senza annunci né proclami, come a volte accade».
Per quello che si capì in seguito, Montanelli disapprovò la tua direzione.
«Indro non mi manifestò mai pubblicamente il suo dissenso. Poi, rilasciò un’intervista in cui sparò a zero contro di me e contro il Corriere. Disse che il giornale era uno sfacelo e senza più una linea. Mi accusò di essere di sinistra e che avevo tradito la borghesia lombarda. Poi aggiunse che lui era pronto a fare un nuovo giornale. Era una frase sleale più verso il Corriere che nei miei confronti».
Come reagisti?
«Sentii il dovere di proporre il suo licenziamento. Furono giornate convulse».
Dalla terrazza di Camogli, dove siede, Piero Ottone abbraccia con lo sguardo le punte di Savona e Portofino. È la bellezza di un golfo raccontata fino allo sfinimento: «Ma sai, ogni volta è come la prima volta. E poi, ora che mi muovo molto meno, che non viaggio quasi più, ho la sensazione di affidare all’occhio il compito particolare di registrare una vastità più intima. Si tratta di una percezione strana: come sovrapporre il vicino e il lontano. Sarà la vecchiaia?».
Hai appena compiuto 90 anni.
«È un’età in cui ci si sente fragili. Vivo una quiete al riparo, per ora, da acciacchi seri. Mi alzo la mattina con la sensazione di sentirmi meno sicuro. Normalmente il mare qui è calmo. Ma ogni tanto arriva la libecciata che solleva onde alte e terribili. E penso alla crudeltà degli elementi, all’evidenza con cui a volte ci sferzano».
A cosa pensi?
«Al fatto che non c’è niente di più crudele di vedersi spogliati progressivamente della propria energia, delle proprie forze».
Ricordi i versi di una poesia di Montale: “Libeccio sferza da anni le vecchie mura...”?
«Non la ricordo. Una volta Montanelli scrisse: “Ottone uomo di poche letture, che ha fatto buon uso di ciò che ha letto”».
E concordi?
«Pienamente. Non ho mai letto Proust. Quando una volta lo confessai, amabilmente, a un amico, lui mi guardò come fossi un animale strano».
Leggere Proust non cambia la vita, ma forse un po’ la migliora.
«Ah lo so, lo so. O almeno lo intuisco. Ma cosa avrei dovuto fare, iscrivermi al partito di coloro che dicono, e temo siano la gran parte, di aver letto questo o quel romanzo quando in cuor loro sanno che non è così?».
Che cosa è l’onestà?
«Naturalmente è un fatto di etica, ma anche uno stile di vita, di coerenza con i propri punti di vista».
A proposito di letture fatte, nella tua autobiografia parli molto di Oswald Spengler e del Tramonto dell’Occidente.
«Non sono completamente digiuno di libri, anche importanti. E se ci penso, retrospettivamente, quella lettura spengleriana fu per me un tour de force. Su sollecitazione di una ragazza di Berlino lo lessi in tedesco in due mesi».
Ho l’impressione che quel libro ti abbia molto segnato.
«Tu dici?».
Si interroga su come finisce una civiltà, come decade. Come finiamo noi. Analogie tra l’antico e il moderno. Sono riflessioni che attraversano tutta la tua autobiografia.
«La decadenza è un tema che ci interpella a tutti i livelli. Ho cercato di vederne i segni nel secolo che ho vissuto: il Novecento. Però ci tengo a dire che non ho scritto un’autobiografia».
Parli di te.
«Non credo che la mia vita sia stata così interessante. Varia, questo sì. Grazie a una professione che mi ha dato il privilegio di conoscere persone e scoprire luoghi».
Ci fu un colloquio chiarificatore tra di voi?
«Ci vedemmo a casa di un suo amico, dove abitava quando veniva a Milano. Mi aprì la porta e la prima cosa che disse fu: Piero ho sbagliato, lo so ho sbagliato».
E tu?
«Gli risposi: certo che hai sbagliato. Ma è irrimediabile. Guardando le cose retrospettivamente fu forse un errore licenziarlo. Ma se l’avessimo tenuto avrebbe continuato a fare la fronda, alimentando i dissidi peggiori».
La tua direzione è durata cinque anni. Come la giudichi?
«Coprì gli anni dal 1972 al ’77. Secondo alcune voci avrei avuto due meriti: aver fatto scrivere Pasolini e reso più leggibile il bollettino meteorologico».
Sei molto autoironico.
«Mica tanto. Quando Pasolini comparve in prima pagina, Giulia Maria mi telefonò manifestando il suo disaccordo».
E cosa facesti?
«Pensai che nello svecchiamento occorresse aprirsi a scrittori, intellettuali, studiosi di economia. Gente, insomma che, anche non in sintonia con la linea, raccontasse le proprie percezioni. A onore del vero Pasolini in prima pagina finì grazie a un suggerimento di Gaspare Barbiellini Amidei».
Pasolini lo hai incontrato?
«Mai, ci sentimmo una sola volta per telefono. Gli dissi: guardi per ragioni di opportunità legale non posso pubblicare il suo articolo e lui, senza fare storie, lo ritirò».
A parte il “potere” intellettuale avrai frequentato quello economico?
«Il potere vero ce l’aveva Enrico Cuccia che ho visto qualche volta e conosciuto abbastanza bene».
Che giudizio ne dai?
«Variegato. Abilissimo nel suo mestiere. Dotato di una grande volontà. Ha protetto, nel corso dei decenni, il capitalismo italiano dalle incursioni straniere. Il suo limite fu la refrattarietà al nuovo. Congelò il paese economico. Credo che lo fece perché al fondo disprezzava la nostra classe imprenditoriale. Una volta mi disse: guardi dottor Ottone, lei è abituato a frequentare Agnelli e Pirelli. Ma sono delle eccezioni. In che senso? Chiesi. La gran parte sono dei fetentoni, precisò».
Chi hai conosciuto meglio tra Agnelli e Pirelli?
«Con Pirelli è stata una bella amicizia. Era un uomo schivo, timido. Ma nelle cose che gli importavano oltremodo coraggioso. Con lui abbiamo organizzato viaggi per mare, condiviso la passione della vela. Agnelli era brillante, acuto, con una allure mondana come mai ho visto in nessun altro. Non gli piaceva fare l’industriale. La cosa che più temeva in assoluto era la noia».
Come giudichi il suo operato?
«Lo condivise con Romiti che invece di pensare allo sviluppo delle auto si concentrò sui piani finanziari. So che a un certo punto l’avvocato voleva divorziare. Erano troppo diversi».
In che senso?
«Romiti non era un animale da salotto. Non aveva niente che potesse piacere ad Agnelli».
Hai conosciuto anche Berlusconi?
«Lo conobbi prima delle sue glorie televisive e lo frequentai moderatamente. La cosa che mi ha sempre colpito di lui è la vitalità pazzesca. Il fatto che ancora oggi riesca a stare a galla è incredibile. Solo in un paese come il nostro un uomo come lui ha potuto fare quello che ha fatto. Non si arrende all’inesorabile tramonto».
E il tuo come lo vivi?
«Qui a Camogli mi sento sicuro. Tutto è più tenue. Avvolto da una malinconia che non ribolle né urta. Che potrei perfino confondere con la serenità. Ho il cruccio, avendo mia moglie dieci anni di meno ed essendo molto più vitale, che la mia fragilità la obblighi a starmi troppo accanto».
Cos’è l’attesa?
«Non c’è niente di messianico e di speranzoso nell’attesa. Si attende solo di peggiorare. È la vita. E a proposito, un giorno l’avvocato Agnelli mi disse: la vita migliore è quella dove vivere a lungo, vivere bene e andarsene in fretta. Poi ho scoperto che la frase era di Seneca».
Quando dici che non c’è niente di messianico, cosa intendi?
«Andiamo verso il nulla. Non ho una fede che mi sostiene e mi rincuora. Non ho mai creduto, fin da bambino è stato così. Non penso ci sia una vita ultraterrena. Il che, tra l’altro, mi obbligherebbe faticosamente a ricominciare da capo. No. La vita per come la penso io alla fine è un addormentarsi e dirsi addio».
Non mi hai parlato della tua infanzia.
«Non me lo hai chiesto. Comunque, fu tranquilla anche se condizionata dalla sfortuna di aver perso a un anno l’articolazione di un ginocchio. Non avrei potuto più correre. E questo ha reso quel periodo meno gioioso».
C’entra con il tuo amore per il mare?
«In qualche modo siamo il risultato anche dei nostri impedimenti. Ho imparato la navigazione in età già matura. E quando ho scoperto la forza del mare, la sua imprevedibilità, le sue leggi fisiche, il suo fascino, il mondo mi si è rivelato diverso da come lo avevo visto dalla terraferma».
Intendi dire più complesso?
«Più compiuto. Come aggiungere un’alternativa. La navigazione è una forma di arricchimento. Richiede, se fatta in un certo modo, una disciplina interiore. Per me, attraverso gli anni, è stato come entrare in un’altra vita. E ora che non vado più per mare e mi limito a guardarlo dalla mia casa, lo sento vicino e a volte mi illudo di esserci ancora in mezzo. E non c’è tedio che possa sconfiggere questo desiderio».
Il tuo vero nome è Mignanego. Perché diventasti Ottone?
«Presi il cognome di mia madre quando, avviandomi alla carriera giornalistica, il mio primo direttore trovò strano Mignanego. Suonava male, mi disse».
L’ottone è una lega tra rame e zinco. Di quale impasto pensi di essere fatto?
«Visto che parliamo del cambio del nome potevo rischiare di finire con il vivere la vita di qualcun altro. E ciò non è accaduto grazie a una forma di coerenza che ho sempre difeso. Sono sempre stato me stesso. E per quanto a posteriori possa apparire banale, questo è uno degli elementi. L’altro è la necessità fisiologica di non gridare, non sbraitare, non eccedere nelle parole. Sono nato a Genova, una città che mi ha trasmesso la forza di non arrendermi all’impulso della retorica. Sono fatto di questa roba qui. Lo sono sempre stato».
Antonio Gnoli, la Repubblica 3/8/2014