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 2014  agosto 03 Domenica calendario

GIULIETTA MIA ADORATA

Il primo incontro avvenne alla radio, negli anni ’40. Amore a prima vista? Di sicuro. Ma con allegria. Senza supplizi romantici né tortuosità sentimentali. «Giulietta ha sempre abitato in me», avrebbe riferito Federico Fellini. «Ho l’impressione di essere stato sposato fin dalla nascita». Ci sono amori predestinati e resistenti a tutto: a tradimenti, a pressioni esterne, a invasioni mediatiche, a diversità caratteriali. Tra loro due fu così. Per il più leggendario dei registi italiani, la Masina sarebbe divenuta un motore dell’istinto, una certezza creativa, un’esigenza vitale. Quando si conobbero, Giulietta Masina aveva un corpicino da farfalla e un viso tondo e stupefatto. Lui era «spiritoso, dolcissimo e magro, con l’impermeabile e i capelli lunghi sul collo»: così l’attrice avrebbe descritto il suo corteggiatore riminese, che allo scopo di conquistarla «tirava fuori dalla tasca, per pagare al ristorante, rotoli di banconote così ciccioni da non stargli nella mano». All’epoca sceneggiatore e vignettista, Fellini fu sedotto da quella giovane sfrontata e comica. Giulietta era una “Charlot-female”, come l’avrebbe ribattezzata Chaplin in un futuro non lontano. Un clown esilarante e punteggiato da misteriose zone d’ombra. Nel periodo del fidanzamento, Giulietta recitava ai microfoni dell’Eiar (vecchia sigla pre-Rai) scenette buffe scritte da Federico, che aveva inventato a sua misura la soave figura di Pallina. L’amico pittore Geleng si mostrò preoccupato dalla sua smania di sposarla. «Sei convinto?», gli chiese conoscendo la sua irrequietezza. «Mi fa troppo ridere», fu la risposta di Federico. Giulietta era diversa dalle altre. Dalle Gradische, dalle Anite, dalle tabaccaie, dalle Paciocche dei suoi fumetti porcelloni. Niente curve mastodontiche né seni turgidi. Piuttosto era la lievità incarnata e un disegnino dentro cui batteva un cuore. Per Federico sarebbe divenuta la radice più forte. Gli avrebbe dato, nella maturità, una struttura indispensabile. Fu lui, nel proprio immaginario, a farne la vestale in grado di contenere il suo genio spregiudicato e debordante. Un po’ per indole e molto per amore, Giulietta si prestò alla proiezione. Il loro appartamento romano, in via Margutta, diviso in due settori per questioni di fumo (al contrario di lei, lui coltivava un disgusto feroce per le sigarette), era un nitido esempio di sobria eleganza borghese. Cattolica osservante, Giulietta era ancorata nel profondo all’idea di coppia e di famiglia. Come spettatrice, la sua passione era il melodramma, che lui non sopportava. Solida e tradizionalista, sapeva comunque godere e divertirsi. Aveva un senso del ritmo prodigioso, che le permetteva d’improvvisare un flamenco mozzafiato o di scatenarsi in un eccitante mambo (lo fece nel film Le notti di Cabiria, del ’57).
Si erano sposati il 30 ottobre del 1943, in piena guerra. Non si sarebbero lasciati fino alla morte, che per lei avvenne nel ’94. Da coniugi simbiotici, non sopravvissero l’uno all’altra. Vedere Giulietta divorata dal tumore massacrò Fellini, che se ne andò un po’ prima della scomparsa della moglie, la quale, a sua volta, non seppe restare al mondo senza di lui. Al funerale del regista, in chiesa, come raccolta in un mucchietto di veli neri, pareva uno scricciolo funebre pronto a esalare l’ultimo respiro. Si consumò in qualche mese.
Giulietta ci sorride dalle foto della sua gioventù — piena di luce e ironia, a volte spiritello lunatico, a volte opalescente e femme fatale, in stile Luxardo — nel volume che ha voluto celebrarla quest’anno, a vent’anni esatti dalla morte. Patinato e sontuoso, s’intitola Giulietta Masina Donna e attrice (a cura di Tiziana Contri). È soprattutto fotografico, ma anche ricco di omaggi stilati da parenti, amici ed esperti di cinema. Lo ha prodotto il Rotary Club di San Giorgio di Piano, paesino a pochi chilometri da Bologna dove l’attrice nacque nel 1921. Tra l’altro include un testo di Simonetta Tavanti, nipote preferita di Giulietta, che fu una zia amorevole: «Sarebbe stata una madre meravigliosa, ma purtroppo perse il suo unico figlio. Poi non riuscì più ad avere bambini, e riversò tutto l’affetto su noi nipoti». È stata Simonetta a fornire a Repubblica gli schizzi inediti di Federico che ritrae la Masina come Gelsomina nel film La Strada e come Cabiria.
La tragica vicenda del figlioletto deceduto è nota: il piccolo Pier Federico nacque il 22 marzo del ’45. Giulietta partorì mentre il marito era impegnato nella sceneggiatura del film di Rossellini Roma città aperta . Gli diede la notizia al telefono: lui stava nell’ufficio della produzione e prese a domandarle, frastornato e commosso: «Com’è? Racchio?». Dopo appena quindici giorni il bimbo morì di broncopolmonite, e per la mamma insorsero complicanze infiammatorie. Giunse a pesare trenta chili, finché la penicillina portata in Italia dagli Alleati le salvò la vita. Anni crudeli, che nelle difficoltà cementarono il vincolo coniugale.
Un secondo libro appena uscito, altro tributo alla straordinaria signora, intende narrare il volto pubblico e privato di Giulietta Masina-Attrice e sposa di Federico Fellini ( Edizioni Sabinae). L’autore è il regista e sceneggiatore Gianfranco Angelucci, che lavorò a lungo con Fellini, e che nel volume avanza un’ipotesi assai discutibile: quella dell’ illegittimità di Giulietta. Riporta infatti pettegolezzi rigorosa- mente anonimi secondo cui «non era figlia di sua madre, ma figlia naturale del padre con una domestica». L’unica concreta motivazione addotta da Angelucci a sostegno del suo azzardo è l’allontanamento di Giulietta (prima di quattro figli) dalla casa di famiglia a quattro anni, quando venne spedita ad abitare a Roma presso una zia che, rimasta vedova, l’aveva reclamata sentendosi sola. A quel traumatico distacco, sostiene Angelucci, sarebbe legata la raffigurazione della protagonista de La Strada , capolavoro del ’54, con la sua storia di una vagabonda “irregolare” venduta al saltimbanco Zampanò. Grazie al personaggio di Gelsomina, che nell’aspetto candido e struggente restituisce il marchio delle violenze subìte, Federico avrebbe fatto riemergere in Giulietta il dolore dell’infanzia. «Mia zia crebbe lontana dai genitori, ma ciò non giustifica la tesi del libro, completamente falsa», afferma la nipote Tavanti. D’altronde è probabile che la precoce frattura, che la fece crescere e studiare distante dai suoi, avesse segnato il carattere della Masina. Forse quella particolarità, percepita da Fellini come una ferita segreta, divenne un patrimonio fertile per le interpretazioni sfaccettate e toccanti che la consegnarono a una popolarità internazionale. «Giulietta, in Giappone, è più famosa di Paperino», raccontava entusiasta il regista. «La fermano per strada, la chiamano Jasmine, le s’inchinano davanti». Non esagerava. Giulietta affascinò il pianeta con la vittima Gelsomina, così come con la sbandata e innocente Cabiria. Quest’ultima propose il miracoloso controsenso di una puttana angelicamente pura, oltre che incrollabilmente fiduciosa nella vita, malgrado le batoste ricevute. Tenace, appassionata, generosa e positiva, la Masina confessava di rispecchiarsi in Cabiria. Molto più che nella visionaria Giulietta degli Spiriti ( 1965), troppo passiva e subalterna al marito per somigliarle; più che nell’attempata soubrette di Ginger e Fred (1985), troppo nostalgica e abbattuta dal tempo che passa. Ruoli memorabili dipinti per lei da Federico.
Affiorano dai cassetti della nipote anche le lettere di Fellini alla moglie. Sono testimonianze accorate di un sentimento mai esaurito, a dispetto delle numerose amanti, o pseudo-tali, accanite nello sbandierare relazioni con il mitico regista, soprattutto post-mortem, quando lui non poteva replicare. Federico, certo, non si fece mancare nulla. E la Masina ne soffrì non poco. Ma Giulietta per lui fu una priorità assoluta. L’idea di separarsene non lo sfiorò un istante. Colpito dall’ictus, con grafia ormai incerta, Fellini insisteva nel dichiararle l’intensità del proprio attaccamento: «Ti voglio così bene che mi manca il respiro». In ospedale aveva un unico pensiero: tornarle accanto, per combinare «qualche pastrocchio» insieme. «Con te sono capace ancora di fare capriole».
Leonetta Bentivoglio, la Repubblica 3/8/2014