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 2014  agosto 03 Domenica calendario

CENT’ANNI ASPETTANDO IL VERDE

Fermi per minuti che sembrano anni sotto l’occhio rosso del giudice che ci fissa implacabile, rivolgiamo un pensiero rovente a Cleveland, la città che inventò il semaforo. In fondo ai desideri e alle nevrosi di ogni guidatore d’automobile, in cima a un palo o penzolante da un cavo, c’è quel lampo di colore al quale tutti noi prigionieri della latta guardiamo come a una divinità crudele e iniqua, essendo noto che il verde favorisce sempre gli altri. Da quando il consiglio comunale di Cleveland decise, nell’agosto del 1914, di regolare il primo, timido traffico stradale con i colori del “vai” o dello “stop” adottati dalle ferrovie, il semaforo è l’angelo custode o il nemico odioso, la trappola mortale o la sentinella premurosa del miliardo e mezzo di guidatori che ogni giorno, in ogni strada del mondo, a esso affidano la propria vita e le proprie maledizioni. Sperando, contro ogni speranza, di imbroccare il verde. Insidiato sempre più da un avversario chiamato rotatoria che lo sta soppiantando, il semaforo tricolore che aggiunge il giallo ai due colori iniziali, è il totem attorno al quale si organizzano cerimonie propiziatorie e riti apotropaici, deviazioni per evitarlo o accelerate rischiosissime per “bruciarlo”, nella certezza incrollabile della Prima Legge del Traffico: quando hai tempo da perdere sono tutti verdi, quando sei in ritardo, saranno tutti rossi. Non c’è donna o uomo al volante, intrappolato nel caos di Pechino o lungo una provinciale, che non sia incrollabilmente convinto che il Dio del Semaforo ce l’abbia con lui e attenda, con suprema malizia, il momento esatto per scattare sul giallo e rosso quando è troppo presto per frenare e troppo tardi per la botta avventurosa di gas che servirà spesso a tenere aperte le officine dei carrozzieri e a pagare le rate del mutuo degli ortopedici.
Molto più di un regolatore di flussi stradali, nella sua evoluzione dal prototipo innalzato sopra un incrocio nell’Ohio, il segnale della eterna dialettica umana fra “passa” e “non passa” è il rilevatore Geiger infallibile della cultura collettiva delle persone che devono, o dovrebbero, obbedirgli. Per capire quanto poco americana sia New York, e quanto ancora profondamente anarchica sia la sua cultura, basta tentare l’attraversamento crosstown, da un fiume all’altro, dell’isola e restare imprigionati nel gridlock, nell’incastro delle auto che tentano di attraversare le grandi avenue da nord a sud con gli ultimi bagliori del verde, pur sapendo che la coda già invade la strada, formando un inestricabile cubo di Rubik. E poi confrontare quegli intrecci strombazzanti e maledicenti con le regolari pulsazioni del traffico in Svizzera o in Germania oppure anche con la roulette tipicamente italiana dell’accelera “che ce la fai”.
Il semaforo, anche ora che l’ingegneria della circolazione urbana ha tentato di introdurre algoritmi di programmazione per mantenere lo scorrimento entro i limiti di velocità, è la testimonianza della generale incapacità umana di autoregolarsi. E, insieme, della insaziabile voracità della burocrazia pubblica per sovraregolare la vita. Non c’era, in quel 1914 a Cleveland, alcuna necessità reale di scandire il transito con imperiosi segnali colorati. Con 469mila automezzi, autocarri inclusi, circolanti in una nazione grande quasi trentadue volte l’Italia, i guidatori delle prime Chevrolet, Dodge, Ford, Hup scoppiettanti lungo la Euclid Avenue e la 105 Street avrebbero potuto benissimo rallentare, fermarsi e concedersi la precedenza. Ma il ripetersi di incidenti, anche mortali nonostan- te la scarsa velocità, fino a tre al mese, e la frequenza di risse violente fra conducenti decisi a transitare per primi nell’incrocio, indusse il padre della fuligginosa città industriale sul Lago Erie a riesumare l’idea di un inventore inglese che già nel 1868 aveva tentato di installare segnali luminosi alimentati a gas in tre strade di Londra. Idea avveniristica, anche troppo, ma che si rivelò tecnologicamente immatura quando le lampade a gas esplosero, provocando incendi e ferimenti di passanti.
Le lampade elettriche bicolori, con soltanto il “vai” e lo “stop” verde e rosso prodotte dalla American Traffic Signal Corp, sul progetto di un poliziotto di Salt Lake City che ne aveva costruito un esemplare nel proprio garage — sempre il tempio della creatività americana — funzionarono e piacquero. Gli incidenti all’incrocio “maledetto”, come i giornali locali lo avevano subito battezzato introducendo un immortale luogo comune per generazioni di futuri giornalisti, si ridussero a un decimo. Le file di auto ferme al semaforo si allungarono, anticipando la cartolina universale dei futuri panorami urbani. L’odiato semaforo, che in base alla Seconda Legge del Traffico è sempre rosso quando arriviamo noi, era venuto per restare.
Ma il tricolore luminoso delle nostre frustrazioni motorizzate non si sarebbe affermato e laureato fino alla sua adozione da parte di New York, sei anni più tardi. Scosso da quello che i giornali della città, anch’essi portati alle iperboli, avevano chiamato la “Messe della Morte”, il raddoppiare dei pedoni mietuti e uccisi dalle auto ogni anno dopo il 1911, il Comune abbandonò le eleganti e inutili torri di bronzo e granito che sulla Quinta Strada mandavano suggerimenti rossi e verdi, e rinunciò a un traffico mal regolato dai poliziotti che si limitavano a gridare “hey, idiota, guarda dove vai”. Nel 1920 piazzò semafori con comandi obbligatori. Il disegno fu affidato a un medico con la passione per il traffico stradale per avere medicato troppi pedoni centrati dalle auto, il dottor John Harris. Costruì una garitta di legno per il poliziotto che azionava le luci a propria discrezione per mantenere il traffico ordinato, ma scorrevole. Non fu un grande successo e quell’agente, che a occhio concedeva dai 60 secondi ai due minuti al passaggio alternato nell’incrocio fra la Quinta e la 57esima strada, produsse un’altra delle immortali Leggi del Traffico, secondo la quale, dicono i newyorchesi e non solo, “mai si vide un ingorgo stradale che la presenza di un poliziotto non potesse peggiorare”.
Il sistema del dottor Harris, sperabilmente migliore come medico che come ingegnere del traffico, era troppo complicato, con luci diverse, la bianca inclusa, per arrestare o spingere il flusso delle auto secondo la direzione, bianco per il transito da Est a Ovest, verde per quello da Nord a Sud. Ma il principio era ormai divenuto storia. Pochi anni dopo, nel 1926, il Comune stanziò 126mila dollari, milioni di oggi, per piazzare eleganti colonnine ornate e di ferro battuto, secondo la moda della City Beautyfication , con le tre luci oggi famigliari a tutti e il semaforo moderno, semi automatico o regolabile ormai a distanza dalle centrali di polizia, era nato. Compreso quel bottone che i pedoni possono premere ripetutamente nella illusione di accelerare il passaggio al verde per l’attraversamento, comunemente conosciuto come “il pulsante del nevrotico” essendo rarissimi — se esistono — quelli che realmente funzionano.
In attesa della rotatoria, che riporta alla razionalità e al buon senso dei guidatori il flusso del traffico, le pallide luci di Cleveland e il baracchino di legno intrecciato del dottor Harris — studiato per non lessare d’estate il malcapitato agente all’interno della sauna — avrebbero aggiunto alla semplicità tricolore una collezione di segnali accessori. Si è arricchito di omini trafelati ma decisi nella loro andatura da compasso con le gambette rigide, di mani rosse aperte per lo stop, di scritte imperiose, “ Walk!”, o Don’t Walk!, di cicalini, di timer con varie tonalità per i non vedenti, tutte variazioni sul tema originale, saltabeccando dai piloni ai cavi sospesi, dal marciapiedi opposto a quello vicino, sintomo di una certa, permanente crisi di identità. Nel nuovo millennio, ha anche trovato moglie, maritandosi con le detestabili telecamere che fotografano la coda delle auto che abbiano tentato l’attraversamento aggrappate agli ultimi bagliori del giallo.
Ma se l’avvenire della sentinella multicolore non è serenissimo, minacciato dai prototipi di vetture robot capaci di autopilotarsi o addirittura dall’abolizione come si sperimenta in Olanda senza provocare “messi di morti”, anzi, stimolando la paura e dunque la prudenza, quel colore è ormai entrato permanentemente nel linguaggio e dunque nella cultura. Ed è infatti una luce verde quella che il Grande Gatsby intravede lontana nella notte sul molo, alla fine del proprio viaggio, come miraggio luminoso di un sogno americano che non raggiungerà mai.
Vittorio Zucconi, la Repubblica 3/8/2014