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 2014  agosto 03 Domenica calendario

“AVEVA SCOPERTO QUALCOSA E GLI HANNO TAPPATO LA BOCCA ORA ALMENO DORMIRÒ UN PO’”

[Tonina Pantani] –
RIMINI.
«La notte scorsa — racconta — non ho chiuso occhio, non ce l’ho fatta. Sapevo quello che stava per succedere e non sono riuscita a prendere sonno. Ma stanotte, certamente, dormirò, perché finalmente sono soddisfatta». Tonina Pantani parla con la voce dura e stanca di chi ancora sta combattendo, anche se è finita. Quello che doveva fare l’ha fatto. E adesso che la Procura di Rimini, dopo dieci anni, ha riaperto il caso di suo figlio, a lei non resta che riposarsi per qualche giorno prima di ricominciare la sua battaglia: «Non mi fermerò finché non vedrò scritta la verità su Marco». Per il momento, però, può dire di aver avuto ragione lei. «Stavolta ho fatto il botto», sospira convinta. La voce è piegata in un misto di rabbia e commozione. È la stessa voce con cui, in questi dieci anni, giornali e tv l’hanno sentita ripetere la sua verità. Un mantra, un flusso di parole unico, ininterrotto, «me l’hanno ammazzato», cominciato in quella notte di San Valentino del 2004 e finito ieri quando i social network e i siti internet di tutto il mondo si sono riempiti di post con la foto del figlio sotto quella parola, scritta a caratteri cubitali: “Omicidio”.
«Me l’hanno ammazzato, l’ho sempre saputo che era andata così — ripeteva ieri —. La mia sensazione, sin da subito, è che avesse scoperto qualcosa e gli abbiano tappato la bocca. Non mi sono mai sbagliata su cosa è successo a Marco. E oggi vi dico un’altra cosa: non credo che siano stati gli spacciatori». Ma ora, scoprire esattamente come sono andate le cose, non è più compito solo suo.
Ora al suo fianco c’è la Procura di Rimini che le offre l’occasione di poter tornare a sperare nella verità, di capire cosa sia successo quel giorno al quinto piano del residence Le Rose: «Sono dieci anni che lotto, sono sfinita».
Il telefono in casa squilla senza sosta. Lei è ancora su Facebook, sulla sua pagina ufficiale, a rispondere alle domande dei fan di suo figlio che si era premurata di avvertire per primi, direttamente, come fossero parenti. Il telefono squilla, ma il più delle volte senza ottenere attenzione. Perché Tonina non vuole parlare. Più che altro non ci riesce. Così come non riesce a muoversi, a uscire di casa. Le farebbe bene andare in giro, incontrare qualcuno, le dicono. Ma lei è come paralizzata. Nel momento della verità preferisce restare in casa. A spiare quello che succede fuori, a osservare il movimento convulso e insensato dei giornalisti, i furgoni delle dirette tv, il viavai dei curiosi. Un mondo di formiche lontane che si agita silenzioso davanti ai muri arancioni a buccia d’arancia della sua villa.
Accanto al cespuglio di bacche rosse, sulla strada per Cesenatico, è parcheggiato il furgone del «Team Pantani corse» con la sua bella serigrafia del Pirata in giallo Tour: «Lo vinse 16 anni fa — sorride Tonina intenerita — era proprio il 2 agosto. Come oggi». Ma oggi non ci sono le grida dei telecronisti, oggi ci sono frammenti di notizie. Roba di cronaca giudiziaria. «Il procuratore ha confermato le notizie di stampa», «l’inchiesta è aperta», «ci sono gli indagati», «anzi no non ci sono». Ascolta distratta. Le interessano ma solamente un po’. La sua attenzione è tutta ancora incredibilmente rivolta al figlio, al suo ricordo. E così si sorprende a parlare con il marito di quei giorni bollenti di sedici anni fa, quando quel loro ragazzo così sensibile e delicato aveva lasciato l’intero paese a bocca aperta, centrando a sorpresa l’accoppiata Giro-Tour e facendo innamorare per sempre di sé milioni di italiani. Un ricordo forte, troppo per continuare a coltivarlo nel silenzio e nella solitudine di quella villa così carica di ricordi.
Meglio provare a uscire, due passi verso il museo Marco Pantani, nel cuore di Cesenatico, proprio dentro la vecchia stazione. Una passeggiata veloce, un saluto agli amici di sempre, quelli del bar e della piadineria. Tentativo vano di respirare un po’, prima che scenda la sera, prima di tornare a casa e scoprire che no, l’alba non aveva altro da offrirle che dolore. «Sto male», sospira. Come ogni mattina da dieci anni a questa parte.
ma. me.— ma. pi.,la Repubblica 3/8/2014