Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  agosto 03 Domenica calendario

QUANDO MARCELLO PORTAVA LA GAZZOSA E FEDERICO CORREVA DALLE ALTRE DONNE

[Intervista a Giovanna Cau] –
Alla prima battaglia la invitò suo padre, Giommaria detto Mimmìa: “Uomo di vedute aperte che osservava il mondo dalla confortevole torretta ginevrina del Bureau International du Travail”. Tra “bombette, tight e alta diplomazia, le miserie italiane di genere gli sembravano puro medioevo. ‘Giovanna, ma davvero lì da voi le donne non votano? Farete qualcosa?’”. E Giovanna Cau, nata nel marzo 1923, erede di “modesti possidenti sardi di media intelligenza” e avvocato confessore di Moravia, Fellini, Mastroianni, Calvino, Visconti, Pratolini, Monica Vitti e Natalia Ginzburg, qualcosa fece. “Riunii un gruppo di donne di diverse estrazione per fare casino”. Un eterogeneo comitato che arringò il Cln di Pertini, Parri e Nenni e si fece ricevere da Bonomi, presidente del Consiglio allora di stanza al Viminale. “Entrammo. Io, Teresa Longo, l’altra Teresa, Noci, Laura Ingrao, Elena Gatti Caporaso, Melina Scelba e Rita Montagnana che indossava sempre delle scarpacce ed era la moglie grassa, anzi molto grassa di un Togliatti che già fornicava con Nilde Jotti”. Al momento del congedo, rapita dalla bellezza degli uscieri, Cau si attardò per un attimo fatale: “E ascoltai uno di loro, una guardia, bollare il gruppo intero con infamia. ‘Ammazzete che racchie’ disse e io, a 70 anni di distanza, ancora penso che abbia arbitrariamente fatto di tutta l’erba un fascio. Rispetto alla Montagnana o a Melina Scelba che era bassa come ‘sto tavolino, io, per dire, ero un fiorellino”. Ricordare costa: “Rubo le parole a Ettore Scola, mi sento una forzata della commemorazione” e ridere aiuta: “Mi discosto dalla condivisa venerazione nazionale per la mamma e dico che, ricambiata, mia madre di me se ne fregava allegramente. Apriva la porta della casa di Via Rubicone, raggiungeva la vicina sul pianerottolo e lì rimaneva per ore lasciandomi in balia di sei fratelli”. Era l’inferno: “Ma l’inferno vero” in un microcosmo: “In cui ci si accontentava di poco e si usavano i tavoli della cucina per giocare a ping-pong o immaginare sottomarini da far navigare in mari misteriosi”. Tra pochi giorni i 91 anni di Giovanna Cau e le sue sigarette fumate senza soluzione di continuità salperanno per Gaeta. Un’altra estate sulla terrazza in cui Ferreri arrotolava tabacco e marijuana. Un’altra allucinazione e un altro déjà vu di fronte al mare in cui affogò Antonio Pietrangeli: “Sensibile e colto, fu un dolore intensissimo” per ripensare alla vita che scivola via senza concedersi il lusso di sentirsi già morti. Alle ristrettezze dell’anagrafe, Giovanna Cau ovvia largheggiando di ironia. La spande sulle attrici sgradite che a suo dire non meritano solo l’oblìo: “Ma dobbiamo parlà veramente di quella che ancora è in giro a ‘ffà marchette?”, sugli inattesi doni dell’età: “Le zanzare non mi pungono più, si vede che il sangue dei vecchi ha un pessimo sapore”, sulle rinunzie dolorose: “Dopo tanti decenni per la prima volta non andrò al Festival di Venezia. Mi dispiace, ma è diventata una fatica. Poi non ho la canotta. Una volta in Sala Grande si entrava in giacca, oggi se non hai la canotta non sei nessuno”.
Secondo Ettore Scola lei viveva il Festival a suo modo. Non andava mai a letto prima delle sei di mattina e alle otto, come un soldato, si ritrovava come se nulla fosse a fare colazione.
Ci piaceva tirare l’alba e dormire ci sembrava proprio un inutile spreco di tempo. Al Lido, nel giardino del Quattro Fontane, a dipanare la matassa dei pettegolezzi, uno dopo l’altro arrivavano tutti. Certi Spritz, certe risate. Tra autori, registi e sceneggiatori, almeno tra quelli che amavo frequentare, non esisteva invidia.
“Se vuoi capire il cinema italiano” diceva Tonino Guerra “devi conoscere Giovanna Cau”.
Ma che è un mestiere serio il cinema? Ho più di novant’anni, sono ancora in piena attività e ancora non ho capito esattamente che lavoro sia. Avrei voluto essere l’architetto Cau, ma papà decise che avrei studiato Legge come lui. Non sbagliò.
Gli anni della gavetta?
Veri e appassionanti. Di mattina prestavo consulenza all’Assitalia, nel pomeriggio raggiungevo Sergio Barenghi nello studio che sua madre ci aveva prestato per incoraggiarci all’attività forense. Non avevo una lira, per sostenermi rivendevo le monete d’oro che i parenti sardi mi regalavano regolarmente per le feste deputate ed ero felice. Poi venne Andrea Alatri in arte Nano e la mia parabola cambiò per sempre.
L’avvocato Alatri e il suo socio Alberto Cortina si occupavano principalmente di cinema e diritto d’autore.
Cortina si presentò da Alatri e senza aggiungere particolari motivazioni sillabò: “Da domani quello che dividevamo in due divideremo in tre”. Alatri gli diede del pazzo e poi volle sapere per chi avrebbe dovuto rinunciare a del denaro. “Giovanna Cau” disse Alberto. L’altro rispose “Va bene” e il dialogo finì così. Poi i due informarono Marcello Mastroianni, giovane assistito dello studio.
E Mastroianni come la prese?
“Speriamo solo che sia bbona” disse. In breve diventammo fratelli. Lo studio per lui era una seconda casa. Con la scusa del vincolo professionale ci passava le giornate. Apriva la porta al posto delle segretarie, scendeva a comprare panini, liquori e gazzose, rispondeva al telefono, non conosceva divismo. Marcello era umile. Aveva ascendenze popolari e una madre fantastica, Ida. Il successo del figlio le sembrava virtuale. Qualcosa di intangibile e sfuggente: “Ma non sarebbe stato meglio un bell’impiego alle Poste di tutto ‘sto casino, Marcellì?”.
L’ha conosciuta bene la madre di Mastroianni?
Un giorno raggiungo Marcello a Orvieto o a Spoleto, non ricordo bene, sul set di Vie privee di Louis Malle e lì vedo Ida per la prima volta. Era il 1961. Mi viene incontro a passo di carica: “Lei è Brigitte Bardot?”. Non faccio in tempo ad aprir bocca che il figlio accorre e le spiega l’equivoco. Sua madre imperturbabile, plasmò la gaffe a modo suo: “Non capisco perché una ragazza con un corpicino simile debba fare l’avvocato”.
Per lei Mastroianni è stato l’amico di una vita.
Pur non essendo mai stata rapita da Marcello, ho avuto con lui una confidenza pazzesca. Non ero io a non trovarlo attraente, ma lui per primo a non credere al mito della sua bellezza. Sosteneva di avere le gambe troppo magre e una leggera gobba. Era convinto di non piacere alle donne e si copriva sempre, anche al mare.
Mastroianni era sentimentalmente inquieto.
Era capace di rispetto e di affetti fortissimi, penso a sua moglie Flora, ma non l’ho mai visto innamorato. Proprio mai. Faceva dei gran casini, questo sì. Un anno, durante la relazione con Faye Dunaway, l’attrice decise di fargli all’ultimo istante una bella sorpresa. Preannunciò il suo arrivo a Fiumicino la sera del 23 dicembre e la notizia gettò Mastroianni nello sconforto.
Non era contento di incontrarla?
Era disperato, la visita gli creava gravissimi problemi. Lui doveva stare con la famiglia e così iniziò a inventare scuse improbabili e sempre più affannate, mentre noi, in una casa affittata per la circostanza, avevamo sistemato la Dunaway per una grottesca e solitaria vigilia di Natale. Marcello con lei esagerò. Alle contraddizioni da sbrogliare, preferiva fughe e clandestinità. Una volta la fece arrivare da Los Angeles, le mise una parrucca scura e puntò verso la casa nella campagna lucchese. All’amore, in qualche modo, era inadatto. Lo seducevano le cose antiche. Gli odori. L’abilità culinaria della madre della fidanzata occasionale, ad esempio, era decisiva. Se il sugo della pasta aveva i pomodori giusti, per l’amante di Mastroianni c’era più di una promessa di futuro.
Da agente lei curava le anime, gli affari o ambedue le cose?
Con certe persone, non con tutte, si finiva per confondere le sfere. Uno con cui accadeva regolarmente era Fellini, un altro adorabile “buciardo” come Marcello. Che mi manca. Dopo esserne stata amica e confidente per 40 anni, mi sarebbe piaciuto salutare Mastroianni un’ultima volta. Ma quando si ammalò, visti i rapporti precari con la sua ultima compagna, la signora Anna Maria Tatò, non fu possibile. Giriamo pagina che è meglio.
Ci dica allora del Fellini mentitore.
Arriva in ufficio trafelato: “Adesso chiamiamo Giulietta e le diciamo che dobbiamo incontrare un produttore per un contratto importantissimo”.
E Giulietta Masina credeva al gran bugiardo?
Se Giulietta sapesse tutto e tenesse straordinariamente il gioco o fosse invece inconsapevole è difficile dirlo. Quello che so è che nei pomeriggi in cui Federico piombava tra le scrivanie era il caos. Dopo avermi intimato di rassicurarla, mi passava Giulietta al telefono, poi mi lasciava a inventare scuse mentre srotolava il tema successivo e ne indicava il corretto svolgimento alle segretarie: “Da questo momento l’avvocato Cau non c’è per nessuno. E non c’è per nessuno perché naturalmente è con me”.
E con lei naturalmente non rimaneva.
Ovviamente. Fellini partiva per il suo giro, si chiudeva la porta alle spalle e rideva: “Vado a fare i sepolcri”. Aveva tre indirizzi in tasca e si proiettava lontano per un lungo pomeriggio di evasione femminile.
Storie importanti?
Attempate ragazze che conosceva a malapena. Anche se mi rendo conto che il soprannome di una delle tre, Condor, alimenti la mitologia felliniana, intorno a Federico ‘ste gran storie d’amore non le ho mai viste. A lui come ad Alberto Sordi. Lo incontravamo a Castiglioncello. Era molto riservato, quasi sospettoso, geloso della sua casa romana in cui viveva con le sorelle senza mai ricevere nessuno.
Rispetto alle tavolate occupate dai cineasti tra Via della Croce e Piazza in Piscinula, un alieno.
Di sicuro era diverso da Marco Ferreri o uno dei registi che lo esaltò, Dino Risi. Un vero simpatico. Un allegro signore di sovrumana intelligenza. A me, che dico tante stronzate, la costante presenza di Dino faceva bene. Non sono precisa come Francesco Rosi, io.
Com’era Francesco Rosi?
Meticoloso. Ordinato. Rigoroso. Tirava fuori la penna, il taccuino, disponeva ogni elemento sul tavolo. Dopo che le operazioni erano state espletate, si poteva finalmente cominciare. Alle riunioni con Rosi c’era sempre Tonino Guerra e Tonino era uno spettacolo. Un sincero generoso e guardate che la cosa non era comune. Di attori, scrittori o registi non generosi nella vita ne ho conosciuti tanti.
Qualche fotografia d’attrice in tema?
Greta Garbo mi parve altera. Bella, ma gelida. Volle conoscere Mastroianni dopo La dolce vita e io che seguivo Marcello come un cagnolino mi imbarcai in direzione di Los Angeles con lui. Andammo a casa della Garbo. Lei fu gentile, non esattamente espansiva. Un’altra persona non particolarmente generosa è stata Monica Vitti. Dispiace dirlo perché sta molto male e all’esistenza paga un prezzo durissimo. Per fortuna la accudisce con meraviglioso amore Roberto Russo. Aveva ragione Monicelli a dire che ci saremmo dovuti vergognare tutti quanti e alzarci in piedi ad applaudirlo. Quando lui e Monica si misero insieme, le malelingue lo investirono con giudizi tremendi sostenendo che a casa Vitti, Russo fosse entrato solo per attaccare cappello. Il tempo e i fatti hanno smentito stupidità e cattiveria.
Pensa mai al destino di Mario Monicelli, uno che alla cattiveria si era a lungo dedicato?
Parlarne mi fa sentire male. La fine di Monicelli o quella di un’altra persona meravigliosa come Carlo Lizzani, tutto quel silenzio, quel vuoto, chi se lo aspettava?
Sulla parete c’è una foto di Moravia. Siede accanto a Fellini. Ha gli occhi chiusi.
Alberto si stufava con grande facilità. Ai convegni si annoiava, non gli andava di ascoltare i discorsi. Sempre elegantissimo, sbadigliava spesso.
Lei ha combattuto a lungo per i diritti dei disabili.
Per mia nipote Benedetta, una ragazza straordinaria con sindrome down che ha ormai 27 anni e dopo molte esperienze positive di crescita, vive oggi un’esistenza felice. Ho conosciuto intellettuali che coltivavano il loro intimo dolore in silenzio e altri che ne facevano il motore per nuove avventure. Ennio Flaiano e Natalia Ginzburg avevano le loro figlie afflitte da gravi handicap e per Luisa e Susanna, soffrivano molto declinando percorsi differenti. Flaiano nascondeva il turbamento dietro la patina di un malinconico umorismo. Natalia, un grande personaggio e una grandissima scrittrice, andò in Parlamento solo per dare a sua figlia una pensione. Delle aule di Montecitorio a Natalia non importava proprio niente. Quando seppe di Benedetta mi mandò una lettera stupenda. Non posso dimenticarla.
Dopo averla sfiorata, al pari della Ginzburg, lei in politica entrò davvero.
In Consiglio Comunale, a Roma, proprio occupandomi di disabili. Ogni tanto, quando c’era un comizio di Veltroni, provocavo un po’ di involontaria ressa. Un giorno tra i fotografi si fa largo un marcantonio. Mi fa strada e mi sistema sul palco. Volevano sapere se ero la nonna di Walter. Anche se lui mi rompe ancora l’anima, in politica mi sono molto divertita. Mi informo. Almeno in tv la seguo ancora.
I suoi ricordi sono vivi, ma come racconta Marco Spagnoli nel suo “Diversamente giovane” presentato al Festival di Roma del 2011, i suoi amici sono tutti quanti altrove.
Diciamola come deve essere detta. È vero, sono morti quasi tutti. E non è finita. Un occhio se ne è andato, mi devo operare alla cataratta e in effetti sono di gran lunga la più vecchia del mazzo. Detto tutto questo, ho sollevato dall’onere chi si dava gran pena in anticipo e il necrologio me lo sono scritta da sola. Tiè.
Tiè.
Adesso ve lo faccio leggere. C’è anche la polemica. “Daniela, dov’è il necrologio?”. (A passo di carica arriva Daniela, la bionda signora che da tempo immemore, a casa Cau, sa districarsi tra faldoni, fogli sparsi, sfuriate e fotografie. Da fedele dipendente, chiede permesso. Poi declama lei stessa, con emozione: “Oggi è scomparsa dalla nostra vita Giovanna Cau, avvocato, la ricordano la sua famiglia e tutti quelli che le sono stati vicini quando a novant’anni è stata costretta a lasciare lo studio di Via Maria Adelaide per continuare a lavorare nella sua abitazione…”)
Lei in Via Maria Adelaide aveva passato anni professionalmente molto significativi. Cosa è successo con i suoi ex soci Roberto Minutillo e Fabrizio Morandi?
E cosa volete che sia successo? Hanno fatto il golpetto. Si sono coalizzati e mi hanno cacciato da un giorno all’altro. Un atto orrendo che non perdonerò mai.
Anni fa una posizione così netta forse l’avrebbe tenuta per sé.
Sono stata molto riservata fino all’altro giorno, mò mi pare che la riservatezza l’ho persa tutta insieme. (Ride). Anche se penso che un avvocato debba soprattutto mediare, mediare è faticoso, soprattutto a una certa età.
Alla sua età però si può dire ciò che si vuole.
Non è falso. Da quando dico che c’è un nuovo uomo nella mia vita, invece di chiamare la Neurodeliri, nessuno si stupisce.
Chi è l’uomo?
Alessandro, il figlio della ragazza rumena che lavora in casa mia. Un giorno rimane incinta e decide di abortire. Viene da me, me lo comunica, poi chiede cosa avrei fatto al suo posto. Non ho mai avuto un impellente desiderio di maternità però ho risposto di istinto. Le ho detto “tienilo”. Un po’ perché nessuno ha il diritto di togliere la vita, un po’ perché la vita può essere anche meravigliosa. Sorprendente. Così ora canto filastrocche bilingue e vivo la sindrome di Gianni Amelio. È diventato nonno e padre a quasi settant’anni e ha completamente perso la testa.
A proposito, come si chiudeva il suo necrologio avvocato Cau?
“Dispiacetevi pure tutti, ma la più dispiaciuta sono io”.
Malcom Pagani e Fabrizio Corallo, il Fatto Quotidiano 3/8/2014