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 2014  agosto 03 Domenica calendario

QUANDO TUTTA L’ITALIA GUARDÒ IN TV LA MORTE DEL COMMISSARIO CATTANI

Raccontare l’Italia contemporanea e farlo in modo cinematografico, dando l’addio alle opere ispirate al modello artistico teatrale. Questa fu la rivoluzione della «Piovra», questo il suo capolavoro. Trent’anni fa, 11 marzo 1984: su Raiuno va in onda la prima puntata della prima serie. Ne sarebbero succedute altre otto, in rapida sequenza fino al 1998. E poi ancora una piccola appendice nel 2003. Fu un successo enorme per la fiction italiana, un prodotto venduto in tutto il mondo, con Michele Placido, Vittorio Mezzogiorno e Raoul Bova che si sono avvicendati nel ruolo dell’eroe, con Remo Girone a fare sempre il cattivo, il vero filo conduttore della saga.
Uno dei pochi prodotti esportati: dopo, soltanto le avventure del commissario Montalbano avranno lo stesso fascino sul pubblico straniero. Un successo che fu aspramente criticato dall’allora democrazia cristiana, e poi da Berlusconi, per l’immagine negativa dell’Italia che mandavamo fuori dei confini della Patria. Si parla di mafia, e della lotta praticamente impossibile contro la cupola. I protagonisti sono uomini eccezionali, quando Michele Placido-commissario Cattani muore in una imboscata, crivellato di colpi, l’ascolto raggiunge il record di 17 milioni di spettatori. Che invece diminuiscono nelle ultime puntate, retrodatate e ambientate negli Anni Cinquanta. Sia per spiegare il nuovo con l’antico, sia per interrompere le polemiche che sistematicamente accompagnavano la trasmissione. Diminuiscono le polemiche, ma anche l’interesse nei confronti del prodotto. Anche se gli ascolti, persa la supremazia di genere, si attestavano sui 7,8 milioni di spettatori, contro i 12,15 del passato.
Cifre comunque da capogiro: le reti nazionali erano sette, gli interessi del pubblico concentrati, la televisione condivisa. Alla regia si succedettero Damiano Damiani, Florestano Vancini, Giacomo Battiato e Luigi Perelli, che ha diretto sei edizioni. Dice: «”La piovra” era l’epopea italiana di allora, ma era soprattutto un modo di far cinema. Ero stato in America, avevo studiato i loro serial, ammirato io sforzo produttivo. Ma il mio modello non era televisivo. Guardavo a Pollack, a Lumet, a Coppola. Mi piaceva il loro cinema senza pause, fatto di poche parole e molta tensione, costruito con sguardo attento e dilatato sui sentimenti che precedono i fatti, e furia controllata scattante al momento della grande scena d’azione».
Ecco, anche se non nacque con lui, questo fu, fin da subito, lo spirito del prodotto. Alla sceneggiatura si succedettero Ennio De Concini, Sandro Petraglia & Stefano Rulli, Mimmo Rafele & Alessandro Sermoneta. Damiani, il primo regista, è morto ultranovantenne nel 2013. Al cinema aveva raccontato la mafia con «Perché si uccide un magistrato», «Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica», «L’istruttoria è chiusa» e, soprattutto, con «Il giorno della civetta», protagonisti Franco Nero e Claudia Cardinale, dal romanzo di Sciascia.
L’idea della «Piovra» venne in un paese che era un calderone di incertezze, pervaso di cultura mafiosa. «In quel contesto, volevamo dimostrare che magistratura e polizia non erano caste chiuse al servizio di interessi di parte, come spesso le considerava la pubblica opinione corriva. La guerra civile strisciante che insanguinò l’Italia dimostrò invece che sono sempre esistiti magistrati e poliziotti democratici, coraggiosi fino al sacrificio personale. Questo sottolineammo con la “Piovra”.
In un’epoca in cui il grande successo cinematografico era tutto per le commedia di pura evasione, lo sceneggiato fu anche la prova di un investimento lungimirante. Sicuramente la tv realizzò in quegli anni opere avanzate e significative». Parlava anche dei suoi attori, Damiani, dei giovani Michele Placido e Barbara De Rossi, a loro modo rivoluzionari anch’essi: «I volti noti del cinema italiano esprimono, nella stragrande maggioranza, una cultura dialettale, legata a una mentalità qualunquistico-servile; è molto difficile trovare attori lontani da questo cliché, come furono De Rossi-Placido. Più facilmente si affermavano i “barzellettari”, quelli che incarnavano la figura del cameriere astuto, dell’Arlecchino servitore di due padroni».
Quella prima «Piovra» durava sei ore. Si raccontava la storia «di un agente di polizia che porta avanti le inchieste consapevole di muoversi in una palude ambigua, dove è difficile distinguere gli amici dai criminali. In questo smarrimento il protagonista è portato a confondere i sentimenti personali con il suo lavoro di tutore della legge; e, proprio attraverso il ricatto sul sentimenti personali, l’organizzazione criminale finirà per distruggerlo. Ma l’anima vive ancor. E pure l’audience.
Alessandra Comazzi, La Stampa 3/8/2014