Pierangelo Sapegno, La Stampa 3/8/2014, 3 agosto 2014
QUEI GIORNI TORMENTATI TRA SOLITUDINE E FRASI CONFUSE
«Marco Pantani giaceva nella camera da letto dell’appartamento D5, al quinto piano del residence Le Rose. Il cadavere era prono sul pavimento, alla destra del letto. Indossava solo un paio di jeans con una cintura di cuoio. Al polso sinistro aveva un orologio Rolex con le lancette ferme alle 4,55». Probabilmente, l’ora della morte, di quel lontano pomeriggio di dieci anni fa, 14 febbraio 2004.
Sabato Riccio, allora dirigente della Squadra Mobile di Rimini, fu il primo funzionario di polizia a entrare in quella stanza. Erano quasi le 9 di sera, e quel che gli si presentò davanti fu una scena assurda, dice, dove tutto era a soqquadro, in un disordine senza senso, con delle medicine per terra, degli psicofarmaci, e poi dei residui di polvere bianca fra i fogli sparsi e i mobili rovesciati, la tv abbandonata vicino alla porta come un qualsiasi oggetto inutile. Sabato Riccio fu preso da «un sentimento di pietà profonda». I morti, in fondo, parlano. C’era solitudine e disperazione in quel corpo riverso nella mansarda, dentro a quel disordine e a quel silenzio irreale. C’era orgoglio e sconfitta, ecco cosa diceva quella scena. «Trovammo anche alcune lettere, scritte da Pantani, di difficile lettura». Erano 4 pagine vergate a mano sulla carta intestata dell’hotel. «Parole di amarezza verso il mondo», come spiegò il pm Paolo Gengarelli: «Rabbia e rancore».
Quella stanza aveva la mansarda ed era la suite meno costosa del residence: 60 euro al giorno. Pantani era arrivato il 9 febbraio, un lunedì. Appena arrivato, «aveva fatto scorta di pizzette al bar interno». La sera dopo s’era fatto portare la cena in camera ordinata da un ristorante vicino: un’omelette al prosciutto e formaggio. Quel sabato 14 febbraio non aveva voluto niente, «non era nemmeno sceso per la colazione». Testimonianze dei camerieri: «Era triste, stanco, schivo». Il portiere, Piero, dice che aveva fissato la camera per 2 giorni, poi era andato avanti fermando la stanza volta per volta, annunciando solo che sabato avrebbe lasciato l’appartamento. Piero arrivò in servizio dopo pranzo: «La ragazza che faceva il turno del mattino m’aveva avvertito che c’erano problemi con Pantani. Era nervoso. Lei era salita alle 11 e mezzo per fare la camera, aveva bussato, senza risposte. Aveva provato a entrare con la sua chiave. La porta però era ostruita: aveva messo il mobiletto della tv a sbarramento». Pantani aveva chiamato la reception: «Mi stanno disturbando». Secondo una testimonianza resa alla polizia avrebbe pure aggiunto, «con voce ansiosa, di chiamare i carabinieri». Dall’interno Pantani avrebbe urlato parole incomprensibili. E avrebbe continuato a spostare mobili contro la porta. Poi è sceso un silenzio lungo tutto il pomeriggio. È come se fosse sparito. Così, d’accordo con il titolare, Piero e gli altri inservienti avevano deciso di lasciarlo in pace. «Cominciammo a chiamarlo solo dopo le 15, fino alle 19 e 30, ogni mezz’ora. Era sempre occupato. Aveva staccato il telefono. Il titolare allora mi disse: vai su e controlla. Ho fatto fatica a entrare, a spostare i mobili dietro la porta. Poi ho visto l’appartamento disfatto e ho pensato: forse è uscito. Ma quando mi sono affacciato sulla mansarda, era lì in terra».
Anche a lui, di quel quadro, è rimasta la stessa sensazione che ha provato il dirigente di polizia Sabato Riccio: c’è qualcosa di desolante e disperato in quella stanza al numero 46 di viale Regina Elena, affacciata sul mare grigio al di là della strada, oltre le spiagge dei Bagni 61 e 62, con il calciobalilla e l’altalena per i bambini festanti. Di fronte al mondo, c’è il fantasma del Pirata. Così, lungo i corridoi del residence, Marco Pantani incrocia in quei giorni qualche sguardo e qualche parola dolente, come se cercasse di dare un senso a quello che sta per succedere e a tutte quelle cose che non possono avere un senso. «Non so se ci sarà un altro giorno per me», avrebbe detto a un testimone. E a un altro: «Ormai sono un ex, sono ingrassato di 15 chili. Il ciclismo è un mondo che mi ha nauseato». Incontra un vicino di camera e gli dice: «Io sono pazzo». A verbale, un testimone: «Il comportamento tenuto da Pantani mi è apparso confuso e le frasi da lui proferite apparivano prive di logica connessione». Il Pirata, con un terzo ospite dell’albergo «disquisisce in un modo incomprensibile dell’essere o non essere». Il pm Paolo Gengarelli in quei giorni ascolta tutti e poi confida che «l’unica cosa da escludere è che la morte sia stata provocata da terze persone. Non ci sono violenze sul corpo, non ci sono buchi da far pensare a punture». Quello di Pantani, dice, era un isolamento totale, cercato. Era venuto qui senza cellulare, aveva staccato il telefono, non usciva a mangiare, non aveva bagaglio, non aveva un cd, non aveva un video, non aveva un libro con sé. Niente. Era venuto solo, con la sua sconfitta.
Pierangelo Sapegno, La Stampa 3/8/2014