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 2014  agosto 03 Domenica calendario

A EREZ FRA TANK E MISSILI COSÌ SI ATTRAVERSA IL CONFINE PIÙ BOMBARDATO DEL MONDO

Raccontare la guerra di Gaza significa attraversare Erez, il posto di frontiera più blindato e bombardato del Medio Oriente attraverso il quale passa chiunque viva a cavallo fra Israele e Gaza.
Di qui passano operatori internazionali, reporter, volontari delle ong e civili in fuga.
Erez è zona di guerra e chiunque vuole superarlo, venendo da Israele, fa anticamera all’incrocio di Yad Mordechai, dal nome del vicino kibbutz intitolato a Moderchai Anielewicz l’eroe della rivolta del Ghetto di Varsavia contro i nazisti, che fu teatro di una delle più cruente battaglie della guerra d’indipendenza del 1948. È un incrocio che evoca la Berlino Ovest del 1945: è popolato da soldati israeliani che dalle vicine basi vengono a rifocillarsi al caffè «Joe», dove incontrano amici e fidanzate - o fidanzati - oppure parcheggiano jeep e blindati in attesa di ordini. «Joe» è anche il punto di incontro dei reporter diretti a Gaza, che a volte vi ricevono i briefing di Peter Lerner, portavoce militare. È fra questi tavoli che si incontra il capitano Nir, un ufficiale della riserva poliglotta, esperto di Africa, che Ariel Sharon volle con sé quando andò a conoscere Mobutu nell’allora Zaire.
Il capitano Nir è il custode delle liste dei giornalisti che vanno e vengono da Gaza. La compilazione è frutto di un fitto scambio di email fra chi presenta richiesta, la «Foreign Press Association» di Tel Aviv e la sicurezza di Erez. Proprio da Erez arriva per email il via libera al passaggio ed è la stessa email che avverte Nir su chi può passare. L’incontro con il capitano è informale, davanti ad un cappuccino o durante un «Zeva Adom» - l’allarme per l’arrivo di razzi, assai frequente - ed è poi lui che dà appuntamento alle auto dei reporter davanti al kibbutz Yad Mordechai, dove il check-point volante di Tzahal dà luce verde all’avvicinamento a Erez. A gestirlo è la polizia militare che chiede i documenti, controlla la lista e si limita a dire «You can go» o «Kadima», avanti. Da quel momento si entra nell’ultimo tratto dell’autostrada 4 in territorio israeliano. Sulla sinistra ci sono i campi arati di Yad Mordechai e più in là, dietro gli eucaliptus, i blindati dei genieri incaricati di smantellare i tunnel di Hamas. Sulla destra invece le case di Zikim, il kibbutz che Hamas ha assaltato dal mare. In cielo il pallone aerostatico dell’intelligence e il ronzio dei droni accompagnano fino all’insegna bianca «Erez Crossing».
Si gira a sinistra, e nel parcheggio dove in tempo di pace sostano i taxi adesso c’è l’ospedale militare creato da Tzahal per i civili palestinesi. È deserto perché Hamas non consente di arrivarci, ma i militari sono comunque indaffarati per il continuo passaggio di tank, blindati e altri mezzi. Sull’altro lato del confine Bayt Lahia e Beit Hanoun sono roccaforti di Hamas e dunque le retrovie israeliane coincidono con il fronte.
Parcheggiare l’auto fra i blindati e mettersi il giubbotto antiproiettile è quasi un unico movimento per i reporter stranieri - agli israeliani è vietato entrare nei Territori - e da questo momento si è nel terminal che Israele ha ristrutturato dopo il ritiro dalla Striscia nel 2005. Assomiglia a un aeroporto internazionale e il passaggio avviene attraverso un controllo passaporti in piena regola. Superati i controlli si accede, attraverso porticine in metallo, tornelli e corridoi stretti ad una massiccia porta blindata, superata la quale ci si trova nella terra di nessuno.
Davanti c’è un canale di metallo, reti e lamiera lungo circa 1,5 km da percorrere a piedi. In tempo di tregua significa essere osservati da entrambi i lati del confine, passo per passo. Con l’unico svago di imbattersi in qualche cammello al pascolo. Ma i combattimenti hanno trasformato questo percorso in un battesimo del fuoco. Hamas lancia razzi, gli israeliani rispondono a cannonate, le esplosioni possono essere ravvicinate. Ciò significa che nell’ultimo tratto del «budello di metallo» - come alcuni lo chiamano - si corre, con l’elmetto in testa. A volte Tzahal crea dei corridoi di silenzio nei combattimenti, al momento del passaggio dei reporter, ma non sempre funziona: la scorsa settimana Hamas ha violato il cessate il fuoco mentre i giornalisti stavano per entrare nella terra di nessuno. Fino all’8 luglio il passaggio era frequentato da operatori Onu, diplomatici stranieri e volontari delle ong ma dopo l’uscita in massa degli stranieri, nella terza settimana di luglio, i reporter sono rimasti gli ultimi a frequentare Erez. Anche perché i pochi civili palestinesi che escono, in genere grazie a permessi israeliani ad personam, spesso per ragioni mediche, sono scomparsi assieme alle loro montagne di valige.
Arrivati sul lato opposto del confine, la frontiera dell’Autorità palestinese è deserta. I doganieri di Abu Mazen hanno lasciato il posto ad alcuni tassisti che, anche sotto le bombe, negoziano sul prezzo della corsa per Gaza. A circa 800 metri di distanza il confine gestito da Hamas è in macerie: gli israeliani lo hanno raso al suolo perché temevano celasse razzi. All’indomani del blitz i doganieri di Hamas si sono spostati sotto un vicino albero per controllare chi transitava ma anche questo confine volante è svanito.
La scomparsa di Hamas dal confine ha consentito ai tank israeliani di posizionarsi nella terra di nessuno e a Tzahal di creare qualcosa che ben descrive l’imprevedibilità del Medio Oriente: un servizio shuttle palestinese per trasportare da Erez e Gaza, andata e ritorno, reporter e personale del terminal. A gestirlo è una società palestinese, a cui Tzahal garantisce il «salvo passaggio» del bus bianco che arriva fino al centro di Gaza, depositando i passeggeri in hotel non troppo distanti dalla cittadella di Hamas a Sheick Radwan. Il tutto al costo di 100 Shekel (21 euro) a persona, incassati dall’autista. L’anomalo bus ha in bella vista kefiah e sciarpe nazionaliste palestinesi, mentre sul cruscotto espone un permesso del ministero dei Trasporti israeliano che lo «autorizza a circolare a Gaza». Ciò lo trasforma in una sorta di confine itinerante fra Israele e Hamas, fino alla soglia dell’hotel Deira, ultima fermata della corsa.
Per chi torna indietro il percorso è lo stesso - inclusi i combattimenti intensi - ma il terminal di Erez è tutt’altra cosa perché attraversarlo in senso opposto significa imbattersi in un sistema di sicurezza fra i più rigidi del Pianeta. Percorrendo al contrario il «budello di metallo» ci si trova davanti ad un muro di cemento. Le quattro porte si aprono solo quando la sorveglianza elettronica ha identificato chi ha davanti e da quel momento in poi si imbocca un cammino ad ostacoli fra metal detector, porte blindate e tornelli, governato da altoparlanti con le voci di addetti alla sicurezza che non si palesano. A meno che non ci sia qualche sospetto e il malcapitato finisca in una sala piccola, con un pavimento oscillante, dove viene ispezionato senza complimenti. A governare il percorso è l’esigenza della massima sicurezza a fronte del rischio di attacchi kamikaze - avvenuti in passato - ma per gli stranieri significa immergersi negli aspetti più aspri del conflitto. Da qui le reazioni più imprevedibili: da alcuni anchorman Usa che tentano, senza successo, di tagliare la fila alle Iene argentine di «Caiga Quien Caiga» che decidono di scaricare la tensione girando, seduta stante, una puntata su Erez.
Maurizio Molinari, La Stampa 3/8/2014