Alessandro Plateroti, Il Sole 24 Ore 2/8/2014, 2 agosto 2014
LE RAGIONI DEL NUOVO MONDO
«Fiat lascia l’Italia per l’Olanda: azionisti di minoranza con meno diritti»; «Fiat sposta la sede legale a Londra per pagare meno tasse»; «Fiat, poca industria e tanta finanza: per questo si quota in America». I titoli e i giudizi con cui il web (ma non solo la rete) ha sintetizzato il via libera del l’assemblea straordinaria del Lingotto alla nascita di Fiat Chrysler Group sono certamente «suggestivi». Su questi temi, del resto, è sempre facile scegliere le scorciatoie, scivolando su posizioni moralistiche. Ma più delle conseguenze apparenti, occorre esaminare i problemi del Paese che sono alla base della scelta, le ragioni che spingono le nostre imprese più grandi non solo a trasferire le produzioni all’estero, ma ora anche le sedi.
E soprattutto, bisogna analizzare con onestà intellettuale le risposte da dare a un processo che non riguarda solo la Fiat, l’industria dell’auto o più in generale il made in Italy, ma tutte le grandi imprese del mondo, da quelle americane a quelle europee: per sopravvivere e crescere su scala globale, le dimensioni nazionali non bastano più. Non bastano più come mercati di vendita, non bastano più come mercati dei capitali e soprattutto, e qui il caso italiano fa scuola, non bastano più come sedi fiscali, visto il ricorso crescente dei governi alla leva tributaria per tappare i buchi della finanza pubblica e l’incapacità cronica di tagliare le spese inutili. Non è forse vero che, come la Fiat, almeno 10 grandi gruppi americani dei settori più diversi hanno recentemente avviato fusioni con concorrenti europei proprio per trasferire la sede fiscale in Paesi a bassa tassazione dei redditi d’impresa? Qui non si tratta di invocare il patriottismo industriale, ma di ragionare con urgenza sul modo di evitare che il costo di questo processo diventi non solo finanziario, ma anche sociale: la Fiat, come ha detto Marchionne, «trasferisce la sede legale ma non va via dall’Italia». Già, ma il problema è fino a quando: oggi è il fisco, domani potrebbero essere le fabbriche.
Dunque ben venga la ricerca di un fisco più leggero se le risorse aggiuntive che determina saranno utilizzate per aumentare gli investimenti in ricerca, sviluppo, conquista di nuovi mercati. Il risparmio fiscale nella City, in questo senso, dovrebbe stare a cuore alle fabbriche italiane, il cui destino sarebbe segnato con una Fiat oberata dal fisco o vincolata nei suoi confini se non avesse conquistato la Chrysler. È bene tenere presente inoltre che sia il controllo della casa americana sia la quotazione a Wall Street fanno parte di un disegno industriale che ha trasformato la Fiat da Cenerentola dell’auto a preda contesa: non è un caso che le recenti indiscrezioni di un interesse della Peugeot e della Volkswagen nei confronti del Lingotto e dei suoi marchi (dall’Alfa alla Ferrari) siano crircolate proprio a ridosso della storica assemblea di ieri. Anche per Marchionne e per la famiglia Agnelli si apre dunque una fase determinante: fare della Fca un "veicolo" aggregatore (e le risorse che raccoglierà a Wall Street serviranno anche a questo) oppure sfruttare la nuova posizione competitiva per lanciare magari l’idea di un polo europeo dell’auto con altri produttori. Una cessione della Fiat, invece, è l’ultima cosa che si potrebbe auspicare.
Il vero problema, insomma, non sono solo le tasse ma le condizioni per rendere Roma, Milano o Torino attraenti come New York, Londra o Francoforte. E qui non è questione solo di tasse, ma di assenza cronica di una classe politica in grado di affrontare le grandi sfide della crisi. E soprattutto, di agganciare la ripresa economica che non solo l’America, ma tanti altri Paesi europei, hanno già avviato. Se non c’è crescita non c’è lavoro, se non ci sono redditi non ci sono i consumi: così, insieme alle imprese, se ne vanno all’estero anche le migliori risorse umane.
È in questo contesto che torna il nodo fiscale, inserendolo in quello delle "convenienze". Un problema che riguarda tutti, non solo le imprese, i risparmiatori o gli investitori, ma anche noi stessi. Non si emigra forse per trovare lavoro, per essere pagati meglio, per pagare meno tasse? Quanti pensionati italiani si sono spostati in Svizzera? E perché non dovrebbero farlo le imprese?
Si dirà: la Fiat se ne va a Londra, e noi paghiamo la Cassa integrazione. Già, ma la Cassa Integrazione è una misura sociale per evitare i licenziamenti. Va a beneficio dei lavoratori, non delle aziende. Anche se tutti siamo indignati lo stesso. C’è chi delocalizza, e dovremmo indignarci perché in questo modo non si lavora in Italia. C’è chi non vuole investire nel Sud Italia per paura della mafia, e questa è una sorta di viltà verso le istituzioni e i concittadini. Come c’è chi faceva e fa tutt’ora trading finanziario, andando a prendere il denaro dove costa di meno; e toglie lavoro alle nostre banche. Ma con l’indignazione non si risolvono i problemi e non si fa avanzare il Paese. E’ compito del governo, dei partiti, delle istituzioni creare il miglior humus di convenienze.
Un’ultima annotazione. Oltre il 90% dell’industria italiana e’ rappresentato da piccole aziende. I grandi gruppi sono in gran parte controllati dallo Stato. È andata avanti da più di 20 anni la retorica pauperista del "piccolo è bello" senza un indirizzo di politica industriale che aiutasse i piccoli a diventare medie aziende e queste a diventare grandi. Quelli che ce l’hanno fatta sono cresciuti nel disinteresse pubblico generale. Ma strapparci le vesti sulla Fiat o sul prossimo che la seguirà, piangere sul passato e sulle occasioni perdute, è un esercizio inutile. Guardiamo invece al presente: fior di aziende italiane hanno acquisito imprese estere o stanno combattendo per farlo, ma come sempre nell’indifferenza generale: forse qualcuno, tra politici e sindacalisti, ha speso una parola per sostenere Autostrade nello scontro con Parigi sulle tariffe autostradali? O il tentativo – ancora in corso – di Andrea Bonomi di aggiudicarsi in Francia il Club Med, storica icona del turismo di lusso? Questi sono solo esempi. Una miriade di altri imprenditori producono e si affermano su tutti i mercati. È loro che dobbiamo tener presenti, se, al di là delle vicende Fiat, Telecom e Alitalia, vogliamo continuare ad essere la settima potenza industriale al mondo, la terza in Europa.
Alessandro Plateroti, Il Sole 24 Ore 2/8/2014