Stefano Bartezzaghi, la Repubblica 2/8/2014, 2 agosto 2014
ECCO PERCHÉ NESSUNO ASCOLTA PIÙ NESSUNO
Recenti studi cercano di quantificare quello che una sensazione, netta quanto difficile da catturare precisamente, ci suggerisce: che abbiamo qualche problema con l’ascolto. O almeno col farci ascoltare. È una fortuna avere qualcuno che sa ascoltare, e che pratichi i quattro parametri del RASA enunciati dalla comunicatrice texana Barbara Miller (“Receive”: ricevere; “Appreciate”: dare segni di apprezzamento mentre l’altro parla; “Summarizing”: riassumere quello che ci ha detto; “Asking”: rivolgere domande per andare più a fondo). Ma sappiamo fare fortunati i nostri interlocutori, praticando, noi, gli stessi parametri?
In inglese, ascoltare, listen, è anagramma di silente, silent. Ma tutti, magari, inconsapevolmente sanno quanto la qualità dell’ascolto cosiddetto passivo influisca sulle proprie prestazioni oratorie. Ci sono amiche e amici con cui parliamo meglio. Se parliamo in pubblico conosciamo la differenze fra le platee paganti (sia pure poco) e motivate del Festivaletteratura di Mantova e del Festival della Mente di Sarzana e pubblici annoiati e distratti. Non è un problema di educazione, è contributo — sia pure passivo — all’efficacia della comunicazione. Il difficile è ricordarselo quando ad ascoltare siamo noi.
La realtà è che mentre qualcuno parla pensiamo a cosa dire noi; oppure lo interrompiamo per rispondere al problema che ci sta ponendo prima di averlo capito bene, o ascoltiamo «dall’interno di una sorta di solido bunker che abbiamo messo anni a costruire e di cui però non siamo ancora consapevoli», come dice Julian Treasure, che si occupa di “ascolto consapevole”. Laura Janusik insegna invece comunicazione a Kansas City e ha comparato uno studio sull’ascolto degli studenti con uno analogo condotto nel 1980: si sarebbe passati dal 53 per cento al 24 del tempo dedicato all’ascolto. Con il sospetto che non ascoltiamo perché pensiamo di recuperare su Google quello che abbiamo perduto. E se un altro studio del 1987 diceva che in media ci ricordiamo il 10 per cento di quanto detto in una conversazione, il dato ora pare peggiorato di molto.
Il problema, però, potrebbe essere ancora più generale. Ha a che fare con il primato dato nelle nostre mitologie sociali all’attività, alla performatività, e dunque alla parola detta. In Italia, poi, le logomachie dei talk-show e più recentemente degli streaming (quello fra Grillo e Renzi resta un culmine) dimostrano con un’evidenza sconsolante come la comunicazione sia vissuta in termini di quantità — occupazione di spazio e tempo, annichilimento dell’agibilità locutoria altrui — piuttosto che di qualità. Ed è paradossale che in un discorso pubblico dominato da concetti come “audience” (uditorio, da “udire”) e “share” (condivisione), la vittoria non si consegua con i gol davvero realizzati. Basta il possesso palla.
Cosa viene rimproverato, dagli oppositori interni e dagli esterni a chi è arrivato in posizione apicale e ai suoi cerchi magici? La cantilena è sempre quella: «Non ascolta più, se mai l’ha fatto». Ora si tratta di Matteo Renzi ma gli archivi rigurgitano di lamentele, più o meno caute, verso chiunque in Italia abbia raggiunto il potere. Bisognerebbe allora riprendere quel testo che Italo Calvino scrisse per Luciano Berio, e che ricopriva la parte dedicata all’udito di un progetto che Calvino voleva dedicare ai cinque sensi: «Un re in ascolto». Un re, in realtà, non può che ascoltare. Per non parlare del Dio hollywoodiano di Una giornata da Dio, ossessionato dal brusio incessante delle preghiere.
Ci siamo forse abituati a comunicazioni unilaterali? A giudicare dalle famose intemperanze che si manifestano nel web si ha la sensazione che chi scrive commenti ingiuriosi non abbia proprio l’esatta percezione di essere letto, almeno finché non gli arriva una sacrosanta querela. Basta reagire con calma a certi commenti molesti per sentirsi dire: «Non ce l’avevo con te». Non pensavano di essere dentro a un’interlocuzione. È che la gente si è abituata a parlare da sola al televisore e dire «quanto sei cretino» a quello che si pensa sia un ectoplasma privo di orecchie: lo aveva intuito già negli anni Ottanta il Woody Allen che faceva intervenire Marshall McLuhan in persona in una conversazione privata che lo concerneva (Io e Annie), o che faceva interagire gli attori sullo schermo con la spettatrice Mia Farrow fino a farla entrare nella storia (La Rosa purpurea del Cairo). Oggi a teatro gli spettatori parlano, commentano, anticipano, rispondono al telefono e non sembrano assolutamente consapevoli che lì a loro è richiesto di mantenere una posizione di puro ascolto, e ascolto di quello per cui hanno pagato il biglietto (se l’hanno pagato). Ma non solo pensano di essere invisibili e inaudibili quando rompono le palle a una platea intera, e agli attori stessi: non hanno nemmeno la percezione di quanto l’ascolto attento che negano contribuirebbe invece alla riuscita dello spettacolo, della conferenza, della lezione.
In una conversazione è facile capirlo: l’interlocutore che guarda l’orologio, che riceve un sms e lo legge e risponde dicendoci «parla, parla, ti ascolto», che ci domanda qualcosa che avrebbe dovuto aver ascoltato due minuti fa non solo non ci piace. Ci frustra nel desiderio, o nella necessità, di una conversazione che ci porti qualcosa, anche la mera sensazione di aver fatto passi avanti nel discorso. E quando invece ricordiamo a qualcuno qualcosa che ci ha detto mesi prima, è sempre più frequente registrarne uno stupore quasi commosso: «Ma allora quando parlo mi ascolti!». A contrasto si staglia la figura dello spiritoso sessantenne, tartassato dalla moglie brontolona, la quale a un certo punto sbottò: «Ma almeno mi ascolti?». E lui: «Già ti lascio parlare. Devo anche ascoltarti?». Nel suo sfregiante estremismo, la battuta sembra però riassumere l’atteggiamento comune a molti uditori nazionali, oggi: parla, parla pure, pensala così.
Un’ecologia della comunicazione vorrebbe piuttosto che l’ascolto si spartisse la qualità di principale virtù ex aequo con la responsabilità. Da genitori, partner, professori, colleghi, amici, governanti assumere il dovere di ascoltare e, assieme, quello di rispondere. Esercitare la pazienza, altra dote che ha nell’etimo del suo nome un ricordo della “passività”, apparentemente inerte, ma anche della passione. La passione dell’ascolto? Sì, belle parole, ma ad ascoltare l’ecologia dovremmo anche farci scrupolo di spegnere i led del televisore e chiudere l’acqua mentre ci insaponiamo nella doccia. Ciao. «Te sento e nun te sento», dice il dio Aniene di Corrado Guzzanti al suo super-divino padre. E la verità è che siamo governati dall’attivismo, dall’impazienza, dalla frenesia: e anche dalla sordità.
Stefano Bartezzaghi, la Repubblica 2/8/2014