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 2014  agosto 02 Sabato calendario

LA FARSA FINALE DELL’AVENTINO

Povero Aventino, da Collemetafora dello sdegno morale a teatro comico dei lapsus e delle rimozioni. Il presidente Pietro Grasso scambia il Senato per un’aula giudiziaria un po’ come quel tipo da psicanalisi scambiò sua moglie per un cappello, mentre il padano Stefano Candiani e il grillino Vito Crimi rimuovono, rispettivamente, la secessione e il populismo plebiscitario elevandosi a padri della patria.
E dunque la leghista Patrizia Bisinella si sente Giovanni Amendola: «La Lega resterà in aula solo per appoggiare gli emendamenti». E Vito Petrocelli trova l’eleganza di Emilio Lussu nella seguente frase carica di dottrina: «E’ una maggioranza schifosa». Il risultato non è neppure la parodia dell’Aventino sul quale sarebbe interessante interrogare (non solo) i leghisti e i grillini con domande trabocchetto come quelle che in tv fanno le Iene: in quale luogo dell’Aventino si ritirarono gli antifascisti? E chi erano gli aventiniani? Secondo me ci si potrebbe spingere sino a chiedere se c’era Gramsci, se c’era Gobetti e persino se c’era Matteotti.
E non voglio banalmente e saccentemente dire che quei senatori d’opposizione aventiniana che giovedì hanno scritto sui loro cartelli «qual’è» con l’apostrofo non conoscono la storia d’Italia, ma più seriamente che la storia non c’entra più nulla con la parola Aventino perché nella decadenza decadono anche le citazioni, da Telemaco a Fanfani, dal Principe di Machiavelli all’Aventino appunto, che è ormai una parola ubriaca, la botola del luogo comune dove cadono sia quelli che escono dal Senato e sia quelli che vi restano. Un po’ come la parola ‘garantismo’ che serve a impiastricciare di morale i peggiori gaglioffi.
La verità è che quando c’è un imbroglio parlamentare e la temperatura si alza arriva sempre qualcuno che esce dall’aula e si rifugia sull’Aventino, magari evocandolo per negazione, — preterizione è la figura retorica — : «Non è Aventino» ha detto quel Petrocelli di cui sopra, e «ma non chiamatelo Aventino» hanno scritto i senatori di Sel che il ritiro dall’aula l’hanno (sinora) soltanto minacciato.
Facendola breve, dei sette colli di Roma l’Aventino è quello dove si ritirarono i seguaci di Caio Gracco perché il Senato ne respinse le proposte di legge. Ebbene, quando gli oppositori di Mussolini, duemila anni dopo, decisero di non partecipare ai lavori della Camera per delegittimarla sul piano morale, il loro gesto fu chiamato Aventino non perché davvero gli antifascisti si trasferirono su quel colle, dove nessuno di loro mise piede, ma per il “precedente” storico dei Gracchi. Gli squadristi avevano assassinato Matteotti, Gramsci era stato arrestato, il fascismo al governo stava diventando regime e tuttavia il ritirarsi sull’Aventino per isolare e condannare Mussolini fu un errore storico, ispirato dal liberale Amendola e avallato per disciplina di partito da De Gasperi che pure inizialmente si era opposto. Gobetti e Gramsci lo bollarono come una resa al fascismo.
Ovviamente c’è voluto molto tempo prima che l’Aventino finisse nelle mani grottesche dei grillini e dei leghisti. E bisognerebbe fare la storia delle parole come si fa la storia delle idee, degli uomini e delle nazioni e dunque studiare il percorso del nome che si staccò dal suo Colle, individuare l’autorevolezza morale di chi lo usò in metafora per la prima volta (Amendola appunto che gli storici giudicano di forte tempra etica ma politicamente irresoluto) e poi la polivalenza appropriata e affascinante dell’Aventino che nella prima repubblica era l’estrema risorsa dell’opposizione ad ogni finanziaria, l’astruseria del negarsi, subito successiva al bizantinismo dell’estenuarsi in quell’infinito ostruzionismo che Renzo Arbore ribattezzò “strunzionismo”.
Ed era già campione di polisemia l’Aventino quando Veltroni e Di Pietro uscirono dall’aula nel 2008 (seguiti persino da Casini), un mese prima della caduta del governo Berlusconi. Ma divenne un dizionario enciclopedico quando lo stesso Berlusconi, fuori contesto, con una telefonata ordinò a Iva Zanicchi di abbandonare la trasmissione di Gad Lerner definita «postribolo» e di ritirarsi sull’Aventino. E bisognerebbe perciò raccontare l’infiammarsi di quella parola anche nella democrazia televisiva dove alzarsi e andarsene è stato spesso spettacolo di sdegno simulato, sino al significare l’opposto di sé: l’Aventino come rifugio del peggiore, come fuga per azzoppare la democrazia e non più per glorificarla. Per esempio, nel 2013 Berlusconi non partecipò alla seduta del “suo” Consiglio dei ministri che salvava con un decreto ad hoc la “sua” Retequattro: si ritirò sull’Aventino della stanza accanto, lasciando la “sua” sedia vuota, incolpevolmente ignaro che anche Luciano Liggio preferiva ritirarsi sull’Aventino di una camera vicina a comporre poesie bucoliche per dare ai picciotti la «libertà» di emettere le sue sentenze di morte e, subito dopo, di eseguirle. Al suo posto lasciava una sedia vuota e, sul tavolo, la lupara.
Ecco: è stata illuminante la parola Aventino sino al suo arrivo nell’attuale insignificanza piena ed efficacissima. E infatti ieri sera in Parlamento era tutto un precisare di “mezzo Aventino”, “Aventino momentaneo”, “Aventino per un giorno” sino all’Aventino fotografato sul twitter dal grillino Nicola Morra: «Ecco, questa è la mia tessera per votare. L’ho tolta! Non partecipiamo più a votazioni con questa conduzione dell’aula ». E già il lessico sovraeccitato di Grillo si spostava su Grasso che diventata «l’incaricato di fare del regolamento stracci della polvere», «il grigio funzionario governativo», e soprattutto «un qualsiasi Oblomov» che è un altro strazio di citazione. Oblomov è infatti l’eroe di Goncarov, il simbolo della viltà, del non scegliere, l’uomo che dorme tutta la giornata con il libro aperto sulla stessa pagina. Insomma chi ha letto Oblomov (ma chi di loro l’ha letto?) capisce che con Grasso non c’entra nulla, ma il richiamo all’autore russo suona bene. Oblomov è solo un’altra parola ubriaca, come Aventino appunto, che nessuno potrà mai più pronunziare e sul quale nessuno si potrà mai più rifugiare. Dobbiamo anche questo a Grillo: da ieri i colli di Roma sono sei.
Francesco Merlo, la Repubblica 2/8/2014