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 2014  agosto 02 Sabato calendario

PADELLARO: «ORA LE 25 MILA COPIE DELL’UNITA’ INTERESSANO PIU’ DEL SUO FUTURO»

«Auguro a l’Unità di tornare in edicola. Ma di un fatto sono convinto: Matteo Renzi conosce bene l’importanza dell’Unità, però non ne ha alcun bisogno per trasmettere i suoi messaggi. Esistono fior di giornaloni che assolvono molto bene questo compito». Antonio Padellaro, direttore del Fatto Quotidiano, ha guidato l’Unità dal 2005 al 2008.
Il quotidiano fondato da Gramsci ora non è più in edicola: direttore Padellaro, l’Unità oggi ha ancora senso di esistere?
«Per esistere, deve avere un pensiero forte. Se l’Unità rappresenta una sinistra che non accetta di essere omologata nel “renzismo” - che è tutt’altro rispetto alla sinistra - allora ha ancora un senso. L’idea del giornale supermarket è morta, possono sopravvivere le piccole botteghe artigianali, dove si può trovare un prodotto di qualità: ci vuole la capacità di esprimere ogni giorno qualcosa di diverso e accattivante».
Lei pensa che possa rinascere?
«Nessuno sopravvive per diritto divino. Hanno perso copie perché non sono riusciti a disancorarsi dal passato. Sono molto legato ai lavoratori dell’Unità, ma non amo la retorica. Per tornare in edicola serve un editore intelligente, un’attenzione scrupolosa ai conti, una strutture agile, ridotta. Le ottime firme ci sono».
Se tornasse a essere un giornale di partito?
«Potrebbe essere un’ipotesi. La peggiore, aggiungerei. Credo piuttosto che debba recuperare la sua autonomia. I giornali chiudono quando a comandare è la politica».
Ci racconta l’esperienza del 2001, quando nasce la nuova Unità?
«L’Unità chiude nel 2000 perché sommersa dai debiti. Nel 2001, i nuovi azionisti guidati da Alessandro Dalai, insieme con il direttore di Furio Colombo, riportano il giornale a uno stato di ottima salute: le vendite superavano 100 mila copie».
E i Ds come reagirono?
«Colombo s’era subito presentato con una linea di forte opposizione a Berlusconi. Posizione osteggiata dai Ds: pretendevano toni più moderati. Noi invece insistevamo: era la nostra forza».
Quando iniziarono i problemi con il partito?
«Subito. La nostra posizione al G8 di Genova l’irritò fortemente. Ma non abbiamo dato ascolto. Dopo qualche anno, però, la politica rientrò nel giornale e si ruppero i margini di mediazione».
Come si manifestava la loro insofferenza?
«Il comportamento dei leader del partito in quegli anni è imperdonabile: improvvisamente volevano mandar via Colombo. Un inciso: l’inciucio non l’ha inventato Massimo D’Alema. Alcuni dirigenti del centro sinistra hanno un dna ’inciucista’. Ma fino a quando questa visione, sebbene impoverisse la sinistra, si manteneva fuori dal giornale, il problema era minore. L’origine della crisi ha inizio quando, nonostante i Ds non fossero più i proprietari della testata, rientrarono, mostrando un’insofferenza crescente nei nostri confronti».
Quando sentì che la pressione del partito era insostenibile?
«Quando mi fu chiesto di cacciare Travaglio. Curava una rubrica sull’Unità: “Bananas”, amata dai lettori. Attaccava Berlusconi, ma anche i fautori a sinistra dell’”inciucio”. Era invitato alle feste dell’Unità ma, all’improvviso, giunse il diktat dall’alto: Travaglio non doveva più presenziarle. Svelava i molti difetti dei cosiddetti “compagnucci” - intendendo chi si dice di sinistra ma in realtà non lo è - e mi fu chiesto di mandarlo via. Risposi: cacciate me. Un segnale di superficialità e arroganza che ha portato, con altri fattori, alla crisi del giornale».
Come giudica le manifestazioni di solidarietà di questi giorni?
«Insopportabili. Funziona più una telefonata personale che le pubbliche manifestazioni di solidarietà. Uscendo dalle ipocrisie, in queste ore, la vera domanda che circola in politica e nella stampa, è la seguente: dove finiranno le 25 mila copie dell’Unità? L’onestà intellettuale è sempre preferibile a una solidarietà ipocrita».