varie, 3 agosto 2014
DEFAULT ARGENTINA PER IL FOGLIO DEI FOGLI 4 AGOSTO 2014
Alla mezzanotte di mercoledì 30 luglio l’Argentina ha fatto default, di nuovo. Guiso: «Si è detto che è il secondo default in 13 anni. Ma la vera conta è peggiore. Da quando ha conquistato l’indipendenza nel 1816 l’Argentina ha fatto ben sette default, e da allora ha passato il 33% degli anni in default o in ristrutturazione del proprio debito. Un record condiviso con parecchie delle altre economie dell’America del Sud che vantano il 77% dei default mondiali» [1].
Si tratta però di un fallimento anomalo perché di norma un paese va in bancarotta quando non ha i soldi per pagare gli interessi e le scadenze del proprio debito pubblico. Questa volta, invece, Buenos Aires si è solo rifiutata di pagare 1,33 miliardi di dollari a due hedge funds che avevano rastrellato sul mercato secondario bond argentini spendendo poco più di 100 milioni di dollari [2].
Di fatto l’Argentina non è in salute, visti i tassi d’inflazione altissimi e la disoccupazione alle stelle, ma i soldi per onorare i suoi creditori ce l’ha. E lo ha fatto. Il governo di Buenos Aires ha effettuato un bonifico di 800 milioni di dollari per il pagamento che aveva in calendario, ossia quello della cedola di una parte del suo debito che andava in distribuzione il 30 giugno scorso. I soldi sono però stati bloccati dal giudice americano Thomas Griesa, che ha dato ragione ai due fondi americani. La sentenza Usa ha stabilito che se non paga gli hedge non può neanche onorare gli altri creditori dei titoli su cui ha giurisdizione l’America (i bond erano stati emessi negli Usa) [3].
Per capire il cavillo giuridico bisogna tornare indietro al 2001 quando, travolta da una crisi economica e finanziaria, l’Argentina dichiarò un default, questo sì vero e proprio, da 132 miliardi di dollari. In pratica disse che non era in grado di restituire ai possessori dei suoi titoli di stato (in gran parte internazionali, compresi fondi pensione e piccoli investitori – 450mila solo in Italia) i soldi che questi gli avevano prestato. Lunghe trattative portarono alla cosiddetta «ristrutturazione del debito». Nel 2005 e nel 2010 vennero emessi, in sostituzione di quelli oggetto di fallimento, nuovi titoli «scontati». Cioè nuovi bond con un controvalore del 30% circa dell’importo originario, con scadenza più lunga e interessi più bassi – e furono offerti ai possessori dei precedenti [4].
Pur di limitare le perdite, quasi tutti aderirono allo scambio (swap) e fu ristrutturato il 92,4% del debito. I proprietari del restante 7,6%, per lo più fondi speculativi che avevano comprato i bond a prezzi stracciati, ricorsero alla giustizia statunitense per farsi restituire il controvalore originario più tutti gli interessi non onorati (i titoli pre-2001 pagavano cedole annuali molto sopra il 10%). Lo scorso mese la Corte suprema americana gli ha dato ragione, dicendo che i possessori di titoli di stato argentini che non avevano accettato la ristrutturazione del debito successiva al default del 2001 dovevano essere rimborsati al cento per cento [5].
Mentre il ministro delle Finanze Axel Kicilloff, riferendosi ai due hedge funds che hanno avuto ragione in tribunale, continuava a ripetere che «non intendiamo pagare gli avvoltoi», i suoi legali si affrettavano a spiegare alle controparti che Buenos Aires non poteva, anche se avesse voluto, rimborsare i fondi. Bertone: «Glielo impedisce il Rufo (equità di trattamento per tutti coloro che aderiscono al concambio) che, semplificando, concede ai titolari di bond di chiedere pagamenti maggiori se l’Argentina dovesse accordarsi con chi non ha accettato lo scambio. In pratica qualora decidesse di pagare a condizioni più vantaggiose un creditore, automaticamente le nuove condizioni andrebbero estese a tutti quanti. Cosa che andrebbe costare al governo centinaia di miliardi di dollari. Questa clausola però scadrà a fine 2014. Di qui un sospetto, anzi più di un sospetto: l’accordo tra gli hedge e Buenos Aires si farà perché conviene a tutti. Ma solo dopo il 31 dicembre» [2].
Infatti l’ipotesi più accreditata tra gli analisti è quella di un accordo tra il governo argentino e i fondi statunitensi da siglare nei primi giorni del 2015. Da quel momento sarebbe scongiurata l’ipotesi che tutti i creditori avanzino pretese di rimborsi superiori al 30 per cento. E dopo l’accordo l’Argentina potrebbe riprendere a pagare le cedole dei titoli ristrutturati. Da Rin: «Il rischio di questo scenario è che comunque, oltre a 1,5 miliardi di dollari da pagare ai fondi avvoltoio, si sollevino richieste da parte di tutti gli holdout che non aderirono alla ristrutturazione e secondo il governo argentino la somma potrebbe salire fino a 15-20 miliardi di dollari» [6].
Questo default non cambierà nemmeno la situazione dei vecchi «tango bond», quelli collocati sul mercato italiano negli anni ’90, colpiti dal default di fine 2001 e non scambiati con nuovi titoli nelle ristrutturazioni del 2005 e il 2010. In Italia circa 50mila risparmiatori hanno scelto questa strada e sono in gran parte rappresentati dalla Task Force Argentina dell’Abi. L’Associazione bancaria italiana ha promosso un arbitrato preso l’Icsid che potrebbe chiudersi entro la fine di quest’anno. In caso di condanna l’Argentina potrebbe essere obbligata a pagare i sottoscrittori dei bond indipendentemente dalla sua volontà. Del Corno: «Il tallone d’Achille di queste procedure è la capacità di dare effettiva esecuzione ai pronunciamenti di arbitri e giudici. In tal senso la decisione del giudice americano Thomas Griesa a favore degli hedge funds si distingue per una particolare efficacia: da New York transitano infatti quasi tutti i fondi argentini destinati a pagare le cedole dei risparmiatori di tutto il mondo. Con la decisione del tribunale Usa 800 milioni di dollari sono stati bloccati presso la Bank of New York Mellon» [7].
Conseguenze peggiori ci saranno per i 400mila risparmiatori italiani che hanno invece aderito alle ristrutturazioni del 2005 e del 2010 con un taglio del valore dei titoli e allungamento delle scadenze; una riduzione del valore nominale che oscilla a seconda dei titoli dal 65 al 75%. Lo Conte: «Le cedole di questi titoli sono a rischio; e per questa tipologia di bondholder la situazione si complica ulteriormente e si apre una nuova fase di incertezza e attesa. Difficile comunque che si possa uscire senza ulteriori penalizzazioni, che a questo punto appaiono inevitabili e che si sommano all’haircut – ossia il taglio di valore nominale – già accusato dagli investitori in occasione della ristrutturazione» [7].
Nonostante questo, negli ultimi giorni i prezzi di alcuni titoli di Stato ristrutturati emessi dalla Repubblica argentina nel 2005 e nel 2010 hanno visto crescere il loro valore in misura rilevante. L’obbligazione con scadenza 2033, in particolare, è salita fino a quota 95. Mercoledì sera, poche ore prima che l’Argentina finisse in default tecnico come ormai era scontato, la borsa di Buenos Aires ha chiuso la seduta in rialzo del 6,95%. Longo: «Cosa avesse da festeggiare non si sa, ma tant’è: quel balzo l’ha portata al massimo degli ultimi 20 anni. Il giorno dopo, a default avvenuto, ha perso il 6,69%. Ma la domanda resta: com’è possibile che un paese sull’orlo del default e con un’economia in frenata abbia la borsa sui massimi? E com’è possibile che il suo secondo crack abbia un impatto minimo su tutti i mercati finanziari?» [8].
C’è chi dice che i valori dei mercati azionari e obbligazionari già scontavano il default tecnico. C’è chi ricorda che l’Argentina non emette bond dal 2001, per cui sui mercati internazionali è una sorta di desaparecido (il debito argentino rappresenta poco più dell’1% nell’indice Jp Morgan dei mercati emergenti). Ha insomma un peso irrisorio finanziariamente parlando. Longo: «Ma probabilmente c’è anche un altro motivo: gli investitori sono così inebriati dalla grande abbondanza di liquidità che ormai sottovalutano qualunque rischio. Non si interessano della striscia di Gaza, né della crisi ucraina, né delle evidenti bolle in giro per il globo: figuriamoci se si scompongono per un default tecnico» [8].
(a cura di Francesco Billi)
Note: [1] Luigi Guiso, Il Sole 24 Ore 1/8; [2] Ugo Bertone, Libero 1/8; [3] Sandra Riccio, La Stampa 1/8;[4] Il Post 31/7;[5] Il Post, 29/7; [6] Roberto Da Rin, Il Sole 24 Ore 1/8; [7] Mauro Del Corno e Marco lo Conte, Il Sole 24 Ore 1/8/;[8] Morya Longo, Il Sole 24 Ore 1/8.