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 2014  agosto 01 Venerdì calendario

BETTEO RENXI

& MATTINO CRANZI LE VITE PARALLELE DI DUE UOMINI SOLI AL COMANDO –
I parallelismi nella storia sono spesso convergenti, soprattutto per i democristiani.
Matteo Renzi non ha militato nella DC, ma della DC ha sfiorato ogni cosa e se non ne è figlio, ne ha almeno un padre: Tiziano.
Non ha incontrato nemmeno Craxi che, anzi, come sindaco, ha rimbalzato da morto, ritenendo “non pedagogico” dedicargli una piazza nella sua nuova Firenze. D’altronde, se nella storia di Firenze si guardasse solo ai gigli, i turisti non troverebbero nomi nella toponomastica, ma solo numeri civici. Ma questo a Renzi poco importa.
E poi anche Craxi, all’inizio della sua avventura politica, fu moralista: nello scandalo Eni Petronim per normalizzare i suoi nemici interni o verso la DC di De Mita (che gli ritornò il piattino avvelenato con gli interessi).
Eppure, a quel Craxi governativo, insieme a tante differenze, lo accomunano molte cose.
I due giungono sulla scena inaspettati, guasconi, forti di un galateo da barbari e profanatori di tabù.
Conquistano i rispettivi partiti con velocità, soffocando i vinti prima che i loro gemiti coprano le risate e gli sberleffi con cui li avevano accolti.
Non fanno prigionieri, ma nuovi cives del loro impero: tutti chini e proni, pronti a svendere le loro intemerate intellettuali per un posto di governo, ma anche di sottogoverno o di semplice: “Ehi, servisse son qui!”.
Da Amato alla Mogherini, con inevitabile decadimento dei tempi, nulla cambia. E sono decine i nomi di coloro che, fulminati da una prospettiva sfuggita, riconoscono un macroscopico, precedente, errore di valutazione. E così, a pi greco mezzi e con la nuca al cielo, prestano giuramento fideistico al nuovo corso. La posizione, in effetti, è comoda perché, quando mai venisse il tempo, risparmierà l’imbarazzo di guardare in faccia il rinnegato. D’altra parte sono affari; politici, ma sempre affari. Mica passione.
Arrivano entrambi giovani a Palazzo Chigi. Hanno la faccia da “tizio più svelto del bar”, da capetto dei tavolini, lì, dove un lazzo ben riuscito disegna la leadership più che un master universitario. Una milanese metropolitana, l’altra di Pontassieve.
Vengono da una formazione cattolica: Craxi studia tra preti e seminari accompagnando “Don Ceriotti, il viceparroco di San Giovanni (...) vestito da chierichetto, tenendo tra le mani l’acqua benedetta, seduto sulla canna della bicicletta, a dare l’estrema unzione ai morti all’obitorio”; Renzi “con Don Giovanni Sassolini e la croce del chierichetto portata ai funerali”.
Il primo si laicizza e porterà a casa il Concordato, mentre il secondo, da boy scout, calpesterà chilometri nella Yellowstone della Maremma concimando terreno fertile di future classi dirigenti. Presto, infatti, si ritroveranno nel “Governo del sorriso” molti ex giovani marciatori in short e fazzoletto. E dopo decine di ministri della Difesa che “la leva” l’avevano fatta al servizio militare - “tiè!!!” - ma mai in divisa, sarà Renzi a nominare una ministra delle forze armate boy scout: vero e primo transgender ideologico del nuovo corso (tipo Loredana Bertè alla Farnesina).
Poi c’è l’amore, assolutamente platonico, per le donne: imposte nel partito, nelle istituzioni, nella società. Cappiello, Boniver, Bellisario per il primo; Boschi, Madia, Moretti per il secondo. Tutte belline quell’attimo prima di dichiarare: “Voglio essere giudicata per le mie idee e non per il mio corpo” tutte insieme a ricordarti che se i miracoli non sono forse di questa terra, le miracolate sì. Ci sono la moda e il Made in Italy. Per un Craxi che ricordava agli americani “noi voliamo con i vostri aerei, ma voi camminate con le nostre scarpe”, c’è un Renzi, in tessuto lucido e scarpe che ringhiano toscana, pronto a vestire il mondo. Tutti e due, industrialmente, innamorati della moda, ma nessuno dei due mai cool, trendy o intrigantemente elegante.
Perché l’abito, prima che passione o fabbrica, è messaggio: lo sono la giacchetta bianca, Armani, che Craxi sfodererà nelle prime tribune elettorali e il giubbottino nero con cui Renzi esonderà da Maria De Filippi.
Armani, Trussardi, Krizia da un lato, Scervino dall’altro; magari si farà.
L’abito è rottura. Come i jeans craxiani alle prime esplorazioni di governo pertiniano, con conseguente intimazione: “Vatti a cambiare e ritorna”; al vestito chiaro con giacca sportiva di Renzi per gli auguri serali al Quirinale (senza ramanzina, preferendo il toscano rinunciare al saluto Napolitano).
Se Trussardi disegnerà per Craxi gli occhiali da sguardo decisionista ed empatici come un cazzotto, Renzi incarnerà la trasposizione politica delle Hogan: qualcosa che dovrebbe piacerti perché l’hanno visto indosso a qualcuno che dicono piaccia. Forse, entrambi, di presenza fisica - l’uno per i suoi quasi due metri; l’altro, secondo Tinto Brass, per la “sua faccia vagamente porcina” - diventeranno grottescamente “sexy”, “belli” o “affascinanti” agli occhi dei loro cantori. Entrambi col fotografo personale amico e fedelissimo. Craxi fa l’assemblea nazionale di “nani e ballerine”, che avrà avuto pure la Milo e la Vanoni, ma anche Gassman, Veronesi e Fellini. Renzi rilancia col successo della Leopolda perché “l’alto” e il “basso”, shakerati insieme, oggi non sono più kitsch, ma contaminazione 2.0. Ci sono poi le mogli, lasciate alla solitudine delle origini geografiche in un silenzio schivo che non promette nulla di buono per una Roma che, millenariamente, riempie ogni vuoto. Anche a letto . Poi gli imprenditori e i manager: Berlusconi e tanti altri in fila per l’uno, il Marchionne scalpitante, Farinetti e Guerra per Renzi. Tutti vicinissimi ai premier per purissimo interesse nazionale.
Entrambi, Craxi e Renzi, col mito evocativo dei mezzi pubblici: Craxi va a sposarsi col tram e si dilegua in metropolitana per vedere l’effetto che fa; Renzi prenderebbe metro, autobus, bici per impregnarsi ogni poro di umanità, come l’Al Pacino, John Milton, de L’Avvocato del Diavolo.
Entrambi con amici fraterni che gli locano loro dimore, per lasciarli concentrare sulla lotta politica: Spartaco Vannoni, la stanza al Raphael, vicino a Piazza Navona; Marco Carrai, l’appartamento a via degli Alfani, vicino a Piazza della Signoria.
Entrambi insofferenti ai ricatti, siano di un Signorile o di un Mineo, e fautori della cultura pokeristica del “o la va o la spacca!”: referendum sulla scala mobile per il primo; più o meno ogni cosa per il secondo.
Entrambi consci dell’aut aut ai sindacati: dominali prima di esserne dominato.
Entrambi promotori della responsabilità civile per i magistrati e in armi per il garantismo una volta che il loro partito risulterà attenzionato dalla giustizia. Entrambi con il loro “mariuolo” del giorno dopo: sia esso un Chiesa o un Orsoni.
Entrambi, definiti di destra da sinistra, quindi decisionisti, leaderisti; entrambi anticomunisti.
Entrambi con un americano, Michael Ledeen, tra le gambe: il primo infastidito dal ritrovarselo stravaccato sui divani del Raphael a fargli la posta; il secondo, giovane speranza, in attesa sul suo divano per esserne benedetto. Poi il primo si giocherà la sua stima filoatlantica con l’indipendenza su Sigonella e il secondo, non si sa ancora, come gestirà la sola degli F35.
Entrambi coi parenti in politica: il cognato Pillitteri e il figlio Bobo per l’uno; il padre Tiziano e la sorella Benedetta per l’altro.
Entrambi col mito della velocità in politica, declinata con la stabilità: quattro anni di governo. Entrambi, iniziatori di un linguaggio semplificato per le tribune elettorali come ci si trovasse al bar, appunto; sapendo che il popolo da convincere, per numeri, è quello dei tavolini, e non quello pieno di filosofismi e vuoto di voti. Redigono manifesti per la sinistra: il primo su L’Espresso del 1978 con il saggio su Proudhon curato da Luciano Pellicani; il secondo, questo febbraio, con la fogliata di Repubblica forte di un lessico da venditore d’auto e di contenuti da conte Mascetti (quello della “supercazzola”).
Raccolgono, entrambi, la diffidenza del fondatore di Repubblica solo che il secondo, per ora, sembra averne superato il bacio della morte.
Rimangono, certo, macroscopiche differenze.
Craxi ha battezzato Berlusconi. Renzi ne è stato cresimato.
Renzi, come Berlusconi, per venderti un frullatore si guarderebbe con te l’intero album delle vacanze; Craxi avrebbe lanciato giù dalla finestra album e frullatore.
Craxi era un analfabeta tecnologico post risorgimentale. Renzi é un ex democristiano digitale.
Craxi, con la sua ruvidezza, non andò mai oltre il 14% dei consensi; Renzi con la sua vaselina è arrivato al 41%. Numeri simmetrici - 14 e 41 - ma schiaccianti per il secondo (in un mondo, tuttavia, che oggi ti gonfia e sgonfia nel tempo di un tweet).
Craxi amava Gian Burrasca, forse ritrovandocisi; Renzi l’America di Happy Days, ma più che Fon-zie sembra un ibrido di Ralph Malph e Potsie.
Renzi ha avuto la Repubblica come rimorchiatore, Craxi come baleniera.
Comunque Craxi, dopo il governo e gli anni del consenso, si è spento nelle condanne giudiziarie; Renzi è ancora al governo.
Vedremo.
Il suo anticraxismo contempera una squadra di collaboratori giovani, svegli e volitivi, che avrebbero fatto apparire i rampanti socialisti della Milano da bere, timidi hare krishna.
Il “bomba” ha, oggi, un domani che oscilla tra la figura di grande leader e quella di direttore marketing delle imminenti supposte di Mario Draghi.
Comunque, attendevamo l’arrivo di un uragano tonante di riforme e modernità.
Per ora, si è udito un peto. Ma forse era quello di un gufo.
Ps: l’indizio più preoccupante rimane, però, quello di un toscano che, nella patria dell’olio, mangia, la domenica, pasta col burro.
Luca Josi, il Fatto Quotidiano 1/8/2014