Stefano Feltri e Carlo Tecce, il Fatto Quotidiano 1/8/2014, 1 agosto 2014
COTTARELLI TAGLIATO IN DIRETTA. E PADOAN VEDE NERO
I problemi si moltiplicano. In America direbbero che Matteo Renzi ha perso il suo “momentum”, cioè quella breve fase in cui tutto sembra andare bene. In autunno ci sarà da scrivere una difficile legge di Stabilità. “La situazione dell’economia è meno favorevole, serve uno sforzo per sostenere la crescita in un contesto di consolidamento delle finanze”, dice il ministro del Tesoro Pier Carlo Padoan. Ma quel “consolidamento dei conti”, cioè tenere sotto controllo deficit e debito, dipende molto da dove si faranno i tagli. Peccato che Renzi non abbia mai riconosciuto il ruolo del commissario per la revisione della spesa, Carlo Cottarelli, sempre più frustrato dalla mancanza di copertura politica. Dal suo blog Cottarelli ha avvertito governo e Parlamento: vi siete già spesi 1,6 miliardi di tagli ancora da approvare. E ieri Renzi gli ha chiarito chi comanda: “La spending review la facciamo anche se va via, dicendo con chiarezza che i numeri sono quelli”. Mentre la gestione di palazzo Chigi è sempre più faticosa – mancano ancora le nomine dello staff, i rapporti con il sottosegretario Graziano Delrio sono meno fluidi di un tempo – Renzi cerca di imporre Federica Mogherini come ministro degli Esteri dell’Unione europea. Le resistenze sono forti, il rischio figuraccia altissimo.
In volata, Diego Della Valle batte il gruppo di imprenditori (non gregari) che lo sostiene in questa collisione con il governo di Matteo Renzi. Perché più fumantino e più loquace. Ma il gruppo che pedala dietro, senza rischiare esposizioni, è sempre più variegato e sempre più compatto. Il socio (e amico) Luca Cordero di Montezemolo è d’accordo con la strategia di mister Tod’s, che vuole smuovere l’ex pupillo di Firenze, giudicato trasformato dall’incarico di palazzo Chigi e, soprattutto, passato da rottamatore a riesumatore di Silvio Berlusconi e di una antica maniera di fare politica industriale che ha deluso la coppia Lcdm&Ddv.
Accanto ai fondatori della compagnia ferroviaria Ntv, quella dei treni Italo, si muove l’usurata comitiva di Alitalia, i patrioti che hanno riaffossato l’ex compagnia di bandiera: la famiglia Benetton, Roberto Colaninno, le banche Unicredit e Intesa San Paolo. Il timore è che il renzismo possa macchiarsi di una mutilazione nel settore trasporti: Italo ha oltre 6 milioni di passeggeri ma sconta 77 milioni di perdite nell’ultimo esercizio e così tanti debiti che ora è costretto a rinegoziarli con le banche; Alitalia non è ancora riuscita a ratificare l’accordo con gli arabi di Etihad, sempre più sofferto. Quando l’allora sindaco di Firenze ancora non aveva formato il governo, Montezemolo gli organizzò un incontro romano con lo sceicco Khaldoon al Mubarak che gestisce un fondo gonfio di petrodollari degli Emirati e accelerò la trattativa per Alitalia-Etihad. Ancora tre mesi fa, il presidente della Ferrari rinnovò quell’intesa, che include anche investimenti per l’aeroporto di Fiumicino (gestito da Atlantia, dunque dai Benetton).
La via araba fu intrapresa da Enrico Letta, poi Renzi non l’ha smantellata, però, fanno notare gli imprenditori italiani, il governo non è mai riuscito a far sedere di fronte i vecchi e i (promessi) nuovi azionisti di Alitalia, tutti insieme per un negoziato aperto. Così si innescano gli ultimatum epistolari a ripetizione di questi giorni, dovuti soprattutto all’incertezza sulle condizioni della vecchia Alitalia. I soci – su tutti le banche Intesa e Unicredit – sono molto restii a bruciare altri milioni in una azienda decotta, ma gli arabi vogliono essere sicuri che i loro compagni nella nuova Alitalia non falliscano da un giorno all’altro. Renzi si è limitato a fare da sponda a Francesco Caio, l’amministratore delegato delle Poste, che si rifiuta di buttare soldi pubblici nella bad company, dopo che sono svaniti i 75 milioni impegnati dal suo predecessore Massimo Sarmi. Ma di una certa mancanza di regia complessiva si lamentano gli azionisti più interessati, come i Benetton, Colaninno, Intesa San Paolo e Unicredit.
Il mondo montezemoliano vede un nesso tra la vicenda Alitalia e i destini incerti di Ntv. Rotaie e rotte aeree sono legate: il fallimento del piano Fenice e dell’Alitalia di marca berlusconiana è dovuto all’avanzata del Freccia Rossa che ha azzerato il valore del monopolio concesso al vettore aereo sulla tratta Roma-Milano. Ma il governo Renzi sembra poco interessato ai binari: il premier ha spostato Mauro Moretti a Finmeccanica e ha poi avallato la totale continuità nelle Ferrovie, con la promozione del delfino Michele Elia. Nessun equilibrio cambia, anche il nuovo amministratore delegato di Grandi Stazioni (in via di privatizzazione) rispecchia rapporti di forza dell’era Moretti: è Paolo Gallo, già ad della romana Acea, che gode della stima di Franco Caltagirone, azionista di Grandi Stazioni. Le speranze di un nuovo corso renziano per i soci di Ntv sono poi state distrutte da un provvedimento del ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi: una riduzione dei sussidi all’energia al settore ferroviario che doveva colpire le Fs, ma che per le contorsioni della burocrazia è una mazzata da 20 milioni di euro per i privati, cioè Ntv. L’Autorità dei Trasporti, concepita da Letta, anche nell’era del renzismo è rimasta molto prudente: giusto qualche richiamo alle Ferrovie di Stato e poco altro. Della Valle e compagni la vedono soltanto come una fonte di sprechi a cominciare dalla bizzarra scelta di trasferire la sede da Roma a Torino (contento è solo il sindaco renziano Piero Fassino): tre componenti, incluso il presidente, quattro consulenti, un contributo di quattro milioni di euro pubblici.
Questo gruppo capitato da Della Valle, che rimanda a settembre gli estremi giudizi su Renzi, impantanato in riforme costituzionali che non interessano, a suo dire, agli italiani, forma un circolo parallelo a una Confindustria tramortita dall’assenza di dialogo con la politica ridotta all’irrilevanza. Il Sole 24 Ore, quotidiano di Confindustria, a volte punzecchia palazzo Chigi, manifesta scetticismo. Ma il presidente Giorgio Squinzi è diventato silenzioso. La sua vocale opposizione al renzismo si è evoluta in muto distacco. Ma la sua opinione del premier non è certo migliorata, e i giudizi critici sono condivisi dal concorrente Carlo Sangalli, gran capo di Confcommercio (che non ha gradito la crociata renziana contro le Camere di Commercio, in gran parte presiedute proprio da commercianti). L’elenco dei nemici di Renzi si allunga, nessuno di questi da solo è in grado di preoccuparlo, ma come fronte compatto possono creargli parecchi problemi.
Stefano Feltri e Carlo Tecce, il Fatto Quotidiano 1/8/2014