Walter Passerini, La Stampa 1/8/2014, 1 agosto 2014
LA SCALA MOBILE E I SALARI DI OGGI
Sono passati ventidue anni da quel 31 luglio 1992, il giorno in cui venne abolita la scala mobile, ma la questione retributiva e l’agenda per una nuova busta paga resta di grande attualità. Da allora il monte salari ha ridotto la sua corsa, un po’ per la disoccupazione, un po’ per la formula dell’inflazione programmata, a cui si sono conformati i rinnovi contrattuali. Il panorama che oggi abbiamo di fronte è un appiattimento degli stipendi, una caduta dei consumi e una riduzione drastica della produttività.
La vita della scala mobile, il meccanismo di adeguamento delle retribuzioni all’andamento del costo della vita secondo un indice prefissato, è compresa tra il 1945 e il 1992: quarantasette anni che fanno da specchio e metafora delle relazioni sindacali del nostro Paese. Nata dalle macerie di una nazione da ricostruire, in cui la dinamica prezzi-salari costituiva una vitamina per lo sviluppo, la scala mobile raggiunse il suo culmine di popolarità nel 1975, con l’accordo per il punto unico di contingenza. Il patto Agnelli-Lama, così definito in quei tempi, subì negli anni successivi l’epopea dell’inflazione, schizzata a due cifre per effetto della tumultuosa crescita economica, in una spirale prezzi-salari difficile da controllare.
Nel 1976 l’inflazione superò il 16%, nel 1980 il 21,2%, un’escalation insostenibile anche per chi teorizzava il salario come «variabile indipendente». Da qui vennero prima l’accordo di San Valentino del 1984 (governo Craxi), che tagliò di quattro punti la scala mobile, con profonde lacerazioni nella società e tra i sindacati, che costarono la vita all’economista Ezio Tarantelli, ucciso dalle Brigate rosse il 27 marzo 1985; poi l’abolizione definitiva della scala mobile il 31 luglio del 1992 (governo Amato), una tappa del viaggio che ci avrebbe portato in Europa. Da allora l’inflazione restò sempre sotto il 5% e sancì l’avvento di un lungo periodo di moderazione salariale e di calo, oggi arrivato allo 0,5%. Il fatto che l’indice dei prezzi sia giunto a valori da prefisso telefonico non può rallegrarci, perché è il segno della recessione economica in cui siamo immersi. Oggi, non c’è nessuno che si sogni di riproporre il vecchio strumento della scala mobile, ma la questione retributiva resta del tutto aperta. L’agenda della riforma dei salari e la ripresa di una virtuosa dinamica prezzi-stipendi fa i conti con la crisi, che mette al primo posto la difesa dell’occupazione. Ma sarà anche da una nuova funzione di stimolo delle retribuzioni che trarranno beneficio i consumi e la creazione di posti di lavoro.
Le questioni aperte sono il merito e la produttività. La relazione stipendi-produttività, con la contrattazione di secondo livello, potrà essere la madre di una crescita retributiva che farà da moltiplicatore del valore aggiunto, andando a premiare aziende e lavoratori che scommetteranno sull’innovazione. Vi è poi la questione del cuneo fiscale, la riduzione del costo del lavoro, per portare ossigeno alle buste paga dei dipendenti e alle casse delle imprese soprattutto piccole, oggi schiacciate da una fiscalità eccessiva e non selettiva. Si dovrà favorire il welfare aziendale, per incentivare una nuova relazione tra salari diretti e salari non monetari, benefit, bonus spesa e servizi. Il mix tra stipendio fisso e variabile darà maggiore spazio alle retribuzioni di risultato, individuali e di gruppo.
Senza dimenticare, infine, le due soglie decisive nella ripresa di fiducia sulla questione salariale: la crescita della povertà, che richiede l’introduzione di un sostegno al reddito di cittadinanza e l’innalzamento di stipendi e pensioni troppo basse; e la presenza non più sostenibile di differenziali tra posizioni apicali e la stragrande maggioranza dei lavoratori, che se nelle 50 aziende top della Borsa italiana sono di 36 volte, in certe imprese, con bilanci non sempre in regola, arrivano a superare anche la soglia di 400 volte.
Walter Passerini, La Stampa 1/8/2014