Marco Belpoliti, La Stampa 1/8/2014, 1 agosto 2014
TEMPO LIBERO O LAVORATIVO? IL CONFINE SI È DISSOLTO
1° agosto addio! Un altro mito ereditato dal XX secolo se ne va. Chiudevano i cancelli delle grandi fabbriche e cominciavano le vacanze. Tute blu e colletti bianchi, tutti via, al mare, ai monti, in campagna, al paese da parenti e amici. Pensioni, alberghi, alpeggi, case in affitto, roulotte, camping, il 1° agosto era tutto completo. Oggi si dice «Full», e forse non è così. Chiuse le fabbriche, quelle che ancora resistono alla deindustrializzazione del Bel Paese, ora il cancello è diventato «Gate» per la Generazione Erasmus, che viaggia. L’unico «cancello» che conosce è quello delle compagnie aeree low cost. Non ci sono più le vacanze di una volta, perché la divisione tra tempo di lavoro e tempo di vacanze è saltata.
Prima se n’è andata l’organizzazione della giornata lavorativa tradizionale, eredità dei monaci benedettini, l’Horarium, fondato sulle ore. Buon per noi che, rispetto alle civiltà orientali, abbiamo avuto il cristianesimo, con la pausa domenicale, il riposo nel lavoro contadino e la distinzione tra «tempo della Chiesa» e «tempo del mercante», per quanto la civiltà contadina non conosceva vacanze e tempo libero, «loisir». Questo l’ha introdotto la società industriale. Nel XIX secolo, come ricordano Marx ed Engels nell’inchiesta «La condizione della classe operaia in Inghilterra», si lavorava 18 ore al giorno, poi scese a 10, per arrivare alle fatidiche 8 a inizio Novecento. Ad applicarle furono per primi Urss e Francia, dopo la Prima guerra mondiale.
Le vacanze erano ancora un sogno. In Italia sono arrivate nel 1927, grazie al Fascismo, che le ha incardinate dentro la sua «nazionalizzazione delle masse», con il dopolavoro, le colonie estive, i soggiorni operai, e le altre modernizzazioni di un Paese ancora in gran parte rurale. Le vacanze erano state sin lì solo quelle della nobiltà, come le descrive nel «Gattopardo» Tomasi di Lampedusa, dove i protagonisti arrivano impolverati, dopo varie ore di carrozza, a Donnafugata, residenza di campagna. È l’agognata villeggiatura, da cui la borghesia era ancora in parte esclusa.
L’introduzione del tempo libero è, come ha spiegato Alain Corbin, un’invenzione che risale grossomodo al 1850 («L’invenzione del tempo libero 1850-1960», Laterza), legata all’industrializzazione che sancisce la divisione tra tempi quantitativi, segnati dagli orologi e dai calendari, disciplinati dal lavoro di fabbrica, e tempi qualitativi, quelli che si dividono tra tempo di lavoro e tempo libero, tempo festivo e tempo feriale, tempo sociale e tempo individuale. Quanto resta oggi di tutto questo? Ben poco. Per quanto la Costituzione abbia sancito il diritto alle ferie, e nel 2003 sia entrato nei contratti di lavoro collettivi, con la cifra canonica dei 20 giorni, la distinzione tra tempo libero e tempo di lavoro è appunto tramontata per la maggior parte della popolazione dei Paesi occidentali. L’informatizzazione ha dissolto la localizzazione, ovvero la fabbrica tradizionale, e anche l’ufficio sembra superato a favore dell’«ufficio diffuso». Puoi lavorare dove vuoi e quando vuoi. Le reti digitali hanno dato il colpo finale a quello che restava dell’organizzazione tradizionale.
Che cosa resta del tempo libero? Jonathan Crary, nel libro «24/7 Late Capitalism and the End of Sleep» (Verso), ipotizza che tra poco anche il sonno sarà colonizzato. Intanto scordiamoci le tradizionali vacanze. Cancelli chiusi, e noi fuori a lavorare, a partire dai social network, che aggiorniamo ogni ora per la felicità di Mark Zuckerberg, l’uomo più ricco del Pianeta. Almeno lui andrà in vacanza? Gate sempre aperti.
Marco Belpoliti, La Stampa 1/8/2014