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 2014  agosto 01 Venerdì calendario

ORA LA PROVA DELLA LEGGE DI STABILITÀ MA VIETATO METTERE NUOVE TASSE

E’ proprio vero che i numeri dei conti pubblici restano gli stessi, chiunque sia a rivedere le spese. Ma proprio gli eventi di questi giorni mostrano che la volontà politica di incidere sui bilanci per ora manca. Non sarà facile trovarla, di qui a ottobre, quando la legge di stabilità 2015 dovrà essere pronta. E se non ci riesce un leader popolare come Matteo Renzi, chi mai ci riuscirà?
Già nelle altre capitali d’Europa si ricomincia a dire che l’Italia non cambierà mai. Nella battaglia sul Fiscal Compact il nostro governo era parso soprattutto cercare vantaggi a breve termine; il caso Cottarelli conferma i dubbi sulla sua capacità di realizzare la «madre di tutte le riforme» ossia la revisione della spesa.
Sia chiaro, non ci sono catastrofi alle porte. Le voci sulla «troika» in arrivo sono scemenze (perfino il Portogallo, con tutti i guai delle sue banche, riesce ad andare avanti senza soccorsi e controlli esterni). Ma alla lunga un’Italia che si limiti a tirare a campare potrebbe tornare a suscitare sfiducia, a far fuggire i capitali.
Non è di portata immensa, in sé, la manovra di bilancio da realizzare per il 2015. Servono una ventina di miliardi di euro. La novità è che non è davvero possibile ricorrere a nuove tasse (per coprire gli 80 euro di Irpef in meno, poi?). Un Paese pressoché in ristagno come il nostro, all’interno di un’Europa dove una ripresa già debole perde colpi, non reggerebbe.
Più ancora, è un segno politico che occorre. Anche i tagli alle spese frenano l’economia, al contrario di quanto predicavano ricette economiche alla moda; tuttavia, per restituire speranza, per ridare spazio all’iniziativa delle persone, il circolo vizioso dello «spendi e tassa» va interrotto. Quando lo Stato non usa con responsabilità il denaro pubblico, lo spirito civico svanisce.
Nell’esempio canadese, che Carlo Cottarelli invita a studiare, l’opera di revisione – meno 10% sui programmi di spesa in 5 anni – è stata compiuta sotto la diretta responsabilità di un comitato di ministri. Ma occorre sapere che il criterio guida non era «dove possiamo tagliare?», era «quali capitoli della spesa servono davvero?».
Delegando la questione a tecnici si sono bruciati l’uno dopo l’altro esperti autorevoli e preparati. Una assunzione di responsabilità politica è opportuna. Occorre peraltro rendersi conto della vastità del compito. E qui guardiamoci in faccia tutti, senza nasconderci dietro le comode invettive contro i «costi della politica»: sì, vanno ridotti, eppure sono una goccia nel mare.
La politica democratica costa molto perché redistribuisce; perché eroga favori in cambio di consenso. La spesa da tagliare assomma aiuti mirati a questa o quella categoria che oggi è urgente ridurre in nome dell’interesse generale. Ma se la politica non riesce a formare un’idea dell’interesse generale, troppi cittadini faranno muro contro i tagli che li riguardano.
Il caso della previdenza è esemplare. Prendendo a pretesto l’errore degli «esodati» commesso dal governo Monti, si intacca la più seria riforma della spesa attuata finora. Tornare alla pensione anticipata per gli statali è insieme un costo per lo Stato e una ingiustizia verso i dipendenti del settore privato. Dov’è l’interesse generale?
Qui è la sfida. Per cominciare, si può aggredire un problema non arduo da spiegare agli elettori: quante società partecipate dagli enti locali svolgono compiti utili alla collettività? Ha senso che il Comune di Cagliari gestisca un ippodromo, la Regione Umbria un vivaio, il Molise uno zuccherificio da anni sempre in perdita?
Non è un caso che siano prontissime a condividere il potere locale anche le forze politiche estreme, le stesse che nel Parlamento nazionale si trovano sempre meglio all’opposizione. Per l’appunto il bistrattato commissario alla spesa ha scoperto che 2671 delle partecipate locali hanno più consiglieri di amministrazione che dipendenti. Si può cominciare da lì.
Stefano Lepri, La Stampa 1/8/2014