Maurizio Crosetti, la Repubblica 1/8/2014, 1 agosto 2014
“MI DIVORA IL TARLO DEL PERFEZIONISTA LO STRESS DEL CALCIO NON FA PIÙ PER ME”
[Intervista ad Arrigo Sacchi] –
Arrigo Sacchi, ma cos’è questo famoso stress?
«Un tarlo, il tarlo del perfezionista: un vecchio compagno prima alleato e poi nemico. Diciamo che stiamo insieme da un bel po’ di tempo».
Lei ha detto basta, non alleno più, sono troppo stressato. Ma stressati si nasce o si diventa?
«Ricordo che da bambino non finivo mai le vacanze, volevo rientrare a casa prima del tempo. Ero fatto così. Infelice di partire e contentissimo di tornare. Siccome non sono cambiato, a volte dico a mia moglie: beh, cara, sarebbe stato peggio il contrario».
Dove lavora il tarlo?
«Ma naturalmente nella testa, dove c’è la spiegazione di ogni cosa, anche delle vittorie su un campo di calcio. Chi pensa che a pallone decidano i piedi, o il talento, non ha capito niente».
Il tarlo si approfitta dei deboli?
«Non direi proprio, lui abita nel cervello dei perfezionisti. Ci sono tre categorie: i menefreghisti, gli arrivisti che sono pure peggio, e i perfezionisti. Io sono un perfezionista, dunque un ansioso. Penso che potrei fare sempre di più, sempre meglio, e quando sbaglio è quasi sempre per eccesso. Si paga un prezzo, ci si consuma, ma soltanto così ci si realizza veramente. Altrimenti è un lasciarsi vivere».
Il tarlo la visitava anche nei giorni di gloria al Milan?
«Certo che si. La prima volta firmai un contratto di un anno solo: tanto tra un anno smetto, dissi a Berlusconi. Pensavo alla salute».
Sono famosi i suoi abbandoni. Perché?
«Dal Real Madrid me ne andai perché voleva fare tutto il presidente Florentino Perez, all’Atletico perdemmo tre partite di fila, avevo un contratto biennale blindato ma il presidente Gil era inaffidabile. Non la posso mandare via, mi disse, e io risposi: tranquillo, vado via io. Ricordo quel giorno come una liberazione. Io amo la Spagna, ma il viaggio di ritorno a casa fu bellissimo».
Come definirebbe la fatica da stress?
«Cercare di capire tutto, anche quello che non condivido, anzi soprattutto quello. Difendere le proprie idee non convenzionali in un mondo retrodatato. A volte, rischiare di passare per matto. Mi accadde all’inizio, poi a Coverciano ascoltai grandi maestri della panchina come Roxburgh e Venglos e capii di non essere poi così distante da loro, e certamente non matto».
Lo stress del grande calcio ha una sua specificità?
«Forse sì. Per questo Guardiola ha avuto bisogno di una lunga pausa, e penso sia anche il motivo per cui Antonio Conte ha lasciato la Juventus: per logorio, necessità fisica di staccare prima di ammalarsi sul serio».
Lei quando si è accorto che gli altri la vedevano come un mattoide?
«A Bellaria arrivai in panchina da signor nessuno, come al solito. C’era in squadra un giocatore che era stato in A e in B. Un giorno sentii che diceva “io non ho mai fatto nessuna delle cose che ci chiede questo qui: o è un folle oppure un genio”. Spero la seconda, gli risposi».
Il tarlo ha deciso che lei non allenerà mai più?
«Per adesso mi riposo, poi vediamo. Di recente mi è arrivata una proposta di un club importante per allenare di nuovo: grazie ma non ci penso nemmeno, ho risposto. Forse c’entrano pure i sensi di colpa».
Sarebbe a dire?
«Non sono stato un buon padre, per lungo tempo non ho dormito a casa per più di tre notti di seguito. Vorrei almeno essere un buon nonno. Due anni e mezzo fa è nata Giulia, la mia prima nipotina: io e mia moglie abbiamo letteralmente perso la testa. Lavorando con la Federcalcio, sarò stato con lei non più di tre o quattro mesi in tutto e non va bene. Adesso voglio recuperare il tempo perduto».
Più stanco o più deluso?
«Purtroppo siamo un paese che programma poco, e io sono un po’ stufo di sentirmi sempre un alieno. Gli italiani sono gente ingarbugliata e poco incline alla ricerca dello spartito, del copione. Una cosa che nel calcio si può chiamare gioco, oppure progetto, e che a me piace definire anima».
La gioia delle vittorie sportive non è un antidoto sufficiente contro l’ansia?
«Sempre meno col passare degli anni, anche se la vera felicità è una sola, sempre la stessa, che tu vinca il campionato di seconda categoria o la Coppa dei Campioni. Per un tempo lunghissimo il mio stress è stato un plusvalore, una seconda carica di adrenalina. Alla lunga, però, il logorio non perdona. E se ti senti vuoto, non puoi riempire gli altri».
Quanto conta la stanchezza fisica?
«Non poco, perché il perfezionista stressato ha bisogno di precisi tempi di recupero, altrimenti sbiella. Mi sono accorto che questi tempi si fanno sempre più lunghi, invece un bravo allenatore deve trasmettere energia ventiquattro ore su ventiquattro».
La sua famosa intensità?
«Esatto. Il mio amico Carletto Ancelotti lo scrive nel suo libro: Sacchi era così convinto di quello che ci insegnava, che alla fine gli abbiamo creduto».
Esiste un equilibrio tra stress ed esperienza?
«Assolutamente sì, ed è diabolico. Perché adesso io sono sicuro di saperne di più, non solo nel calcio, rispetto a quando ero giovane, però mi manca quella grinta. Da una parte sei più ricco, dall’altra più povero».
Signor Sacchi, cosa ha fatto nel suo primo giorno senza stress?
«Ho dormito due ore nel lettone con la mia nipotina, qui a Milano Marittima, poi l’ho portata a vedere gli animali e un tacchino ci ha rincorso. Domani se farà bel tempo andremo a visitare la casa delle farfalle, ce ne sono a migliaia, bellissime. Volano tutte, sa?».
Maurizio Crosetti, la Repubblica 1/8/2014