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 2014  agosto 01 Venerdì calendario

L’ONU CONTRO GLI USA PER LE ARMI A ISRAELE POI KERRY ANNUNCIA IL CESSATE IL FUOCO

GAZA
Le lacrime che il portavoce dell’Unrwa Chris Gunness non riesce a trattenere durante l’intervista appena iniziata sono il simbolo della tragedia umanitaria che si sta consumando nella Striscia. Forse proprio per questo, ieri, in tarda serata, al culmine dello stremo, è arrivato l’annuncio di Kerry di un cessate il fuoco umanitario di 72 ore a partire da oggi tra Israele e Hamas. Le due parti andranno a Il Cairo in Egitto, per aprire, finalmente, la trattativa. Una tregua, sì. Dopo aver vissuto un’ennesima giornata drammatica, dove le scuole aperte per accogliere gli sfollati palestinesi sono state travolte da un’umanità, 250 mila persone, che chiede aiuto, che si accalca, cerca disperatamente uno spazio vitale. Che chiede il minimo per sopravvivere: ma le strutture dell’Unrwa sono al collasso, non c’è più posto sotto la bandiera blu dell’Onu.
La “Fort Alamo” dell’Unrwa è un complesso dai muri bianchi sta nel cuore di Gaza City. Da qui nel pomeriggio il capo dell’Agenzia Pierre Krahenbuhl ha parlato in videoconferenza al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, riunito a New York. Più che un rapporto è stato un requiem. «La popolazione di Gaza è sull’orlo del baratro, stiamo facendo tutto il possibile per fornire gli sfollati con le esigenze minime — cibo, materassi e coperte — ma siamo ora nella quarta settimana di sfollamenti di massa in strutture impotenti», ha denunciato Krahenbuhl. La sua esperienza per anni di direttore operativo della Croce rossa internazionale gli fa vedere il disastro alle porte: «Le condizioni sono sempre più terribili nelle scuole-rifugi: non c’è acqua per l’igiene, le poche docce e latrine sono totalmente inadeguate. Ci sono i primi segnali di malattie epidemiche, con infezioni della pelle, scabbia e altro. Ci sono migliaia di donne in gravidanza, ci sono neonati in queste condizioni spaventose».
Da quattro giorni la Striscia è senza elettricità e la notte è rischiarata solo dai bengala che l’esercito israeliano spara per indicare bersagli e le aree dove i soldati avanzano negli abitati già ridotti in macerie dall’artiglieria, dai caccia F-16, dalle tre navi che al largo sparano con i loro cannoni la notte e la cupa eco che si diffonde veloce sull’acqua scura del Mediterraneo, qualche istante un’esplosione arancione sulla città buia segnala alle ambulanze rimaste da che parte devono dirigersi, la sirena è l’unico rumore urbano che rompe il silenzio di questa città spettrale e fetida. Dopo otto ore di discussione a porte chiuse il Consiglio di Sicurezza ha chiesto un immediato cessate- il-fuoco a Gaza — il settimo — che né Israele né Hamas sembravano prendere in considerazione. La guerra doveva continuare perché nessuno ha raggiunto gli obiettivi che si è dato: Israele non ha fermato i missili e gli attacchi dai tunnel che spuntano sul confine proseguono, Hamas non ha ottenuto la fine del blocco della Striscia. In mezzo quasi due milioni di palestinesi alla fame e alla sete. Poi, dopo l’ultima mediazione possibile, hanno deciso di fermarsi.
Hamas anche ieri aveva sparato i suoi missili sulle città israeliane della costa con le loro luci ben visibili sulla costa nord di Gaza City. Ashkelon e Ahdod sono a un pugno di chilometri, ma anche contro Tel Aviv. Nessuno è in grado di fare una stima di quanti ne ha ancora nascosti e pronti per le rampe di lancio che escono dal ventre sabbioso della Striscia dove c’è la “città di Hamas”, fatta di gallerie, rifugi, depositi di armi. Il premier israeliano Netanyahu ha deciso per un’intensificazione delle operazioni di terra, e ha fatto richiamare dal ministro della Difesa Moshe Yaalon altri 16 mila riservisti, portando il numero degli operativi a oltre 86 mila militari. È un esercito per una guerra.
Così, al ventitreesimo giorno di bombardamenti continui e dopo 4000 raid aerei anche il fornito arsenale israeliano comincia ad avere i suoi problemi. Il proseguimento delle operazioni ha bisogno di proiettili, missili e mortai che il governo israeliano ha chiesto agli Stati Uniti, paese con il quale le relazioni non sono mai state fredde. La richiesta con grande sollecitudine è stata soddisfatta dal capo del Pentagono Chuck Hagel: le porte di un deposito “d’emergenza” già presente in Israele si sono aperte per far uscire proiettili da 80 mm e da 120 mm, appena qualche tempo dopo l’ennesimo invito del presidente americano Barack Obama di «cessare le operazioni contro le aree civili» e la «l’indifendibile responsabilità israeliana» nella strage alla scuola dell’Onu dell’altro ieri.
È qualcosa che a Gaza, ma anche nel resto mondo si spera, nessuno riesce a capire. Tutti si chiedono come sia possibile chiedere la tregua e l’eccessivo uso delle armi con una mano e passare le munizioni a uno dei due contendenti con l’altra. L’imbarazzo è forte. E l’Onu non ha mancato di far sentire la sua ira su Washington: gli Stati Uniti — ha attaccato l’Alto commissario Onu per i diritti umani, Navi Pillay — forniscono «artiglieria pesante a Israele» e hanno speso «quasi un miliardo per creare una protezione contro i razzi a beneficio dei civili israeliani, ma non di quelli palestinesi». Una critica aspra, che cade nello stesso giorno in cui gli Usa afferma senza mezzi termini che «ci sono pochi dubbi» sul fatto che sia stata l’artiglieria israeliana a colpire la scuola Onu.
Intanto la quarta guerra di Gaza macina le sue vittime con il ritmo di un metronomo. I morti sono quasi 1500, i feriti superano gli ottomila. Di loro chi non muore subito sotto le bombe, muore negli ospedali per le ferite spaventose che medici e chirurghi all’Al Shifa Hospital con uno straordinario impegno si affannano a chiudere con il filo di sutura di seta, l’unico rimasto. Si usava in Italia un quarto di secolo fa. Il tasso di sopravvivenza è quello di un ospedale di prima linea. E poi sempre più spesso il vecchio generatore si inceppa e prima che parta quello di emergenza serve un minuto, due. Si fermano anche i respiratori. La vita va via in un istante.
Fabio Scuto, la Repubblica 1/8/2014