Adriano Sofri, la Repubblica 1/8/2014, 1 agosto 2014
IL MURO DI ISRAELE E I RAGAZZI CON LE FIONDE
GERUSALEMME
Qualche giorno fa, all’aeroporto di Tel Aviv, una giovane donna della sicurezza mi rivolgeva, come succede a chi entri da giornalista, una lunga serie di domande. Domande gentili, che hanno presto lasciato il posto a una conversazione. Le ho detto, alla fine, che distinguo fra l’esistenza dello Stato di Israele, cui sono fortemente legato, e le azioni dei suoi governi, dalle quali spesso fortemente dissento, e che comunque ero venuto per vedere e ascoltare, e avrei raccontato quello che avrei ascoltato e visto.
Simili colloqui d’ingresso sono spiegabili nelle condizioni di Israele o dei Territori palestinesi, e tuttavia suscitano il sospetto che si voglia indurre a un’autocensura o intimidire il visitatore. Cosicché vorrei raccontare prima di tutto alcune delle cose che ho visto e sentito, pregando chi legge di smettere subito, oppure di arrivare in fondo, per evitare un marchiano fraintendimento.
Ho visto alcune dimostrazioni nei villaggi palestinesi di Bil’in, Ni’ilin e Nabi Saleh, in Cisgiordania. Manifestazioni di routine, somiglianti quasi a una recita in cui ciascuno fa scrupolosamente la propria parte: adulti, giovani e bambini, e sostenitori stranieri, che avanzano battendo le mani su bidoni, sventolando bandiere, scandendo slogan, finché i più risoluti si spingono fin sotto il Muro di separazione, il quale intanto hanno preso posizione i militari israeliani e i loro blindati. C’è uno scambio rituale di frasi, sempre le stesse — una è proprio la stessa da entrambe le parti: «Tornatevene a casa» — poi comincia lo scontro. Ragazzi lanciano con le fionde: non quelle con la forcella, quelle che si fanno roteare fino a rilasciarne un capo, in modo da ricordare più incresciosamente il pastore Davide. Un soldato grida: «Vuoi altro gas?», ricordando anche lui qualcosa di terribile, senza volere. Qualcuno lancia pietre, qualcuno esplode granate assordanti, lacrimogeni, proiettili di gomma, non importa chi ha cominciato oggi, c’è confusione, fughe, nuove avanzate, insulti, ci sono dei feriti.
Allora gli uni urlano che ci sono dei feriti, gli altri urlano che avevano avvisato. D’un tratto la recita finisce coi morti veri. Bassem e Jawaher Abu-Rahmah, fratello e sorella, di Bil’in. Ahmed Moussa, 10 anni, a Ni’ilin. Mustafa Tamimi e Rushdi Tamimi a Nabi Saleh. Accorrono ambulanze. I manifestanti piangono e gridano «Fascisti!» Si disperdono, poi si raccolgono di nuovo, e ricominciano i tamburi, le bandiere, gli slogan, più rabbiosi. Su una grande fotografia di una jeep dell’Idf è tracciata la scritta: «Chi ha ucciso Mustafa?». Ci sono dei soldati e. ai loro piedi, dei giovani con le mani legate e gli occhi bendati, in posa davanti a una telecamera.
Potrei continuare a lungo, e con dettagli ancora più drammatici e crudi. Il fatto è che ho visto e sentito queste cose nel piano nobile del (bellissimo) Museo d’arte di Tel Aviv, che dedica un posto d’onore alla mostra personale del pittore israeliano David Reeb (nato nel 1952). Reeb, le cui opere hanno un’aria “facile” ed eclettica che può ricordare la versatilità frenetica del giovane Schifano “vietnamita”, ha fatto delle storie che ho sommariamente riassunto il contenuto esplicito dei suoi quadri e fin qui i commentatori perbene avrebbero giocato sulla peculiarità del linguaggio artistico e della mediazione rispetto alla nuda cronaca o all’impegno politico. Ma Reeb espone anche i video che ha girato andando per dieci anni ogni venerdì nei villaggi citati, e non ha compiuto su quei video e sul loro sonoro il minimo intervento. Lì la comunicazione è immediatamente politica. Non sto scrivendone per un’intenzione di critica d’arte, ma per segnalare un pluralismo — una schizofrenia, qualcuno preferirebbe dire — della società israeliana che è un luogo comune, ma fa oggi un contrasto più netto, di cui vorrei conversare al ritorno con la giovane signora della sicurezza dell’aeroporto Ben Gurion.
Mancano i turisti oggi in Israele. Così mercoledì mi è successa l’esperienza spaesata e imbarazzante di essere l’unico visitatore della Tomba dei Patriarchi a Hebron, sacra a ebrei, cristiani e musulmani. Era il terzo e ultimo giorno dell’Eid al Fitr, la festa della fine del Ramadan. Il monumento sarebbe stato meta di visite di fedeli e pellegrini musulmani, in un’altra situazione. Hebron era deserta se non di gatti. Del resto lungo il percorso, sia verso Betlemme e Hebron, sia poi verso Ramallah, anche i posti di blocco erano pochissimi e poco rigidi. Al checkpoint di Kalandia, il principale accesso a Ramallah, c’erano bensì i segni pressoché fumanti degli scontri di una settimana fa, quando al valico era arrivata la manifestazione di 10mila palestinesi della capitale vicaria.
Era affollato e vivace il centro di Ramallah, dove l’unica cosa da fare l’avevano già fatta tutti i giornalisti del mondo: chiedere
per chi voterebbero se oggi si tenessero le elezioni. (Se e quando si terranno, è sulle ginocchia di qualche Giove). Ho smesso di provarci quando un giovane ha risposto: «Hamas» senza lasciarmi finire la domanda. Abu Mazen non è mai stato così debole, Hamas non era mai stata così popolare. Lo si direbbe un enorme errore di calcolo dei dirigenti israeliani, i quali peraltro erano i più in grado di metterlo in conto.
Divergenze interne a parte, qual è il criterio che guida la leadership israeliana? Non certo la preoccupazione dell’impopolarità e peggio dell’odio suscitato nella gente del resto del mondo dall’impresa di Gaza. La gente del mondo si è sentita dire che l’operazione contro Hamas reagiva al rapimento e all’assassinio dei tre ragazzi israeliani, e però che Hamas non ne era l’autrice, benché i possibili autori fossero suoi aderenti, e Hamas fosse giunta ad approvare. (Per lo statuto di Hamas, uccidere ebrei è un dovere morale). La gente del mondo non sa del lancio di razzi da Gaza, o pensa che sia stato la risposta alla dichiarazione di guerra di Netanyahu contro Hamas. E misura giorno dietro giorno la scia di morti e feriti, le immagini e le storie tragiche delle vittime a Gaza. La piccola estratta dal ventre della madre uccisa dalla bomba, e sopravvissuta solo pochi giorni. Le famiglie colpite nell’edificio in cui hanno cercato rifugio dopo aver abbandonato le proprie case sulle quali erano stati annunciati i bombardamenti: un appuntamento a Samarcanda. E i bambini.
C’è una controversia esasperante sulle immagini dei bambini colpiti. Ma nessuna strumentalizzazione, retorica, esibizione, cinismo, nessun avvertimento sul fatto che i bambini di Gaza vengano addestrati all’odio e al lutto, può far dimenticare che sui bambini di Gaza pesa fino a schiacciarli il passato di tutti: degli israeliani che si vorrebbe cancellare dalla terra in cui si cercarono un rifugio, degli ebrei che si vollero cancellare dalla faccia della terra, degli europei che li vollero cancellare o non seppero impedirlo, degli arabi che vorrebbero cancellare… Le autorità di Israele mostrano, e non è una novità, di tenere in un conto del tutto secondario i sentimenti della gente del mondo verso il loro Stato, se non di ridurli del tutto al pregiudizio. Si affidano alla ragion di stato e alla convinzione di tenere un avamposto e doverlo difendere, anche a costo di non essere più la prima linea di qualcuno, e di restare soli. L’altra faccia del disprezzo verso i sentimenti altrui è l’unità che l’offensiva di Israele raccoglie fra i suoi abitanti. Attendibili o no i sondaggi che danno una maggioranza pressoché totale di israeliani solidali con l’attacco a Gaza, il dato è comunque da riconoscere. Gli striscioni a Gerusalemme dicono: «Saldi nelle retrovie, vittoriosi al fronte».
Se non se ne vuol fare vergognosamente l’espressione di un razzismo psicologico, bisogna leggere la frase che l’altro giorno David Grossman ha lasciato cadere nel suo testo per questo giornale, una constatazione, spero, forse ancora un auspicio: «La sinistra è più consapevole dell’intensità dell’odio verso Israele (che non deriva solo dall’occupazione), della minaccia dell’integralismo islamico e della fragilità di qualunque accordo verrà firmato. Molte più persone, a sinistra, capiscono oggi che i timori e le ansie degli esponenti della destra non sono soltanto paranoie, ma scaturiscono da una concreta realtà». A queste ansie la destra sembra limitarsi, e ignorare la strategia, cioè il tempo lungo, per la tattica, cioè la mera forza. Oggi crede di poterlo fare con più sicumera, perché a compensare l’indignazione commossa della gente del mondo sta un contesto politico internazionale apparentemente molto più favorevole che nelle altre “guerre di Gaza”.
Israele (e anche l’Europa) ha regalato la Turchia ad Hamas, ma l’Egitto di Al Sisi ha tolto ad Hamas il legame più solido e incisivo, gli Hezbollah libanesi hanno altro da cui guardarsi, la Siria è un relitto alla più sanguinosa delle derive. La Giordania, straripante di profughi, spera come l’Egitto che Israele dia una lezione ad Hamas, purché non a costo di una destabilizzazione che li coinvolgerebbe. La stessa cosa vale per l’Arabia Saudita. Le autorità israeliane si rallegrano che le piazze arabe questa volta non si riempiano di folle scatenate contro di loro: ma se le piazze restano vuote, si ingrossano a dismisura le file delle armate jihadiste. Il contesto “favorevole” lo è solo apparentemente, e nel breve tempo: nel lungo, la minaccia islamista (islamista, non islamica) non fa che rafforzarsi. A Ramallah voterebbero in tanti Hamas, e anche il califfato.
Mettere tregua o fine alla scalata di Gaza è un imperativo immediato. Però, casualmente o consapevolmente, quello che la nuova crisi israelo-palestinese ha rimesso all’ordine del giorno — e che l’“Occidente” aveva via via accantonato, per pigrizia, per quieto vivere, per stupidità o, peggio che tutto, facendoci l’abitudine — è l’avanzata dell’islamismo jihadista dal 2001 a oggi. Ho parlato con israeliani entusiasti dell’attacco a Gaza, la buona volta di andare fino in fondo, dicono. I prossimi siete voi europei, dicono, ma voi dormite, non sapete che cos’è il sacrificio. Noi non vogliamo appartenere all’Europa, dicono, né somigliarle. Conosco l’argomento, naturalmente, so più o meno come rispondere. Ho vacillato quando uno mi ha detto: «Hai saputo che i servizi norvegesi hanno avvertito della minaccia di un attentato islamista a Oslo, da parte di loro volontari di ritorno dalla Siria?».
Adriano Sofri, la Repubblica 1/8/2014