Marcello Bussi, MilanoFinanza 1/8/2014, 1 agosto 2014
L’ARGENTINA NELLA TRAPPOLA USA
Tranquilli, il debito argentino rappresenta poco più dell’1% nell’indice Jp Morgan dei mercati emergenti. Pertanto il default «selettivo» (così lo ha definito l’agenzia di rating Standard & Poor’s) dell’Argentina non avrà alcuna ripercussione sui mercati finanziari globali. I problemi semmai ci saranno a Buenos Aires, ma rimarranno lì circoscritti. Tenendo ben presente che paragonare l’attuale default a quello che sconvolse l’Argentina nel 2001, provocando notevoli turbolenze sui mercati globali, è una cosa che non sta né in cielo né in terra. Allora era stata una bancarotta a tutti gli effetti, da 132 miliardi di dollari, con un Paese dall’economia devastata dalla convertibilità 1 a 1 del peso con il dollaro Usa. Dollaro che all’epoca continuava a rafforzarsi, minando la competitività della già fragile economia argentina e gonfiando a dismisura il costo del debito pubblico collocato all’estero. Oggi le cose sono ben diverse, perché il mancato pagamento di 539 milioni di dollari di interessi agli obbligazionisti possessori di titoli ristrutturati che doveva essere effettuato entro il 30 giugno, è frutto di una sentenza della Corte Suprema Usa. Buenos Aires ha infatti depositato i fondi su un conto della Banca centrale argentina alla Bank of New York. Ma questi sono stati congelati dal giudice di New York Thomas Griesa, che ha accolto le richieste degli hedge fund Nml Capital e Aurelius Capital Management. I due fondi non hanno aderito alle ristrutturazioni del debito varate nel 2005 e nel 2010, accettate dal 92,4% dei creditori e che prevedono una svalutazione del 70% dei loro crediti. Gli hedge fund detengono il restante 7,6% del debito argentino e vogliono che esso venga ripagato fino all’ultimo centesimo. Griesa ha dato loro ragione, stabilendo che Buenos Aires non può rimborsare i bond detenuti da chi ha accettato la ristrutturazione se prima non effettua i pagamenti sui titoli non ristrutturati e detenuti dagli hedge fund, a cui dovrebbero essere rimborsati 1,5 miliardi di dollari. Somma che l’Argentina è in grado di pagare. Ma c’è un problema: se Buenos Aires acconsentisse alle richieste degli hedge fund, quell’altro 92,4% di investitori che aveva accettato la svalutazione dei bond da loro detenuti potrebbe appellarsi alla clausola Rufo, secondo cui nessun creditore può godere di condizioni migliori e pretendere così lo stesso trattamento, ovvero il rimborso totale. Questo potrebbe costare all’Argentina fino a 120 miliardi di dollari, una somma che non può permettersi di pagare. «Non firmeremo un accordo che comprometterà il futuro dell’Argentina», ha detto il ministro dell’Economia Axel Kicillof, aggiungendo che se i fondi acconsentissero a uno swap dei titoli con nuovi bond sotto i termini del 2010, come proposto dall’Argentina, avrebbero un ritorno del 300%. Un bel colpaccio, ma sembra che in questa partita più che i soldi conti la volontà Usa di punire l’Argentina per le politiche populiste attuate dalla presidentessa Cristina Kirchner. Secondo Vincenzo Longo, market strategist di IG, «la soluzione possibile sembra il rinvio del pagamento a dopo il 31 dicembre 2014», quando scadrà la clausola Rufo. Intanto Griesa ha convocato una nuova udienza sul caso oggi alle 17 ora italiana.
Marcello Bussi, MilanoFinanza 1/8/2014