Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  agosto 01 Venerdì calendario

IL MAL D’ORIENTE DELLE BANCHE


Il premier ungherese Viktor Orban lo ripete da mesi. «Il 50 per cento del sistema bancario dev’essere di proprietà dello Stato». Nessuna reazione da Intesa, che a Budapest possiede Cib Bank, il quarto istituto del Paese danubiano. Di certo, però, la tentazione dev’essere forte. Da quelle parti il gruppo guidato dall’amministratore delegato Carlo Messina viaggia in rosso ormai da anni. Nel 2013 le perdite hanno superato i 400 milioni. E allora le parole di Orban, un populista di destra dai modi spicci, sono forse suonate come un invito a lasciar perdere. L’esempio da seguire sarebbe quello dei tedeschi della Bayerische Landesbank che hanno appena ceduto al governo di Budapest la controllata MKB. Questione complicata, ma c’è di peggio, perché i guai ungheresi non arrivano da soli.
La guerra civile in Ucraina sta moltiplicando le tensioni finanziarie in un’area come quella dell’Europa orientale che si stava faticosamente riprendendo dalla grande crisi economica cominciata nel 2008. Intesa e Unicredit rischiano grosso. I due colossi italiani del credito, presenti in forze in quelle zone, sono costretti a gestire una situazione che si fa di mese in mese più complicata, tra economie pericolanti, governi ostili e lampi di guerra. In gioco ci sono miliardi di euro che le due banche italiane hanno investito nel corso di un’espansione verso Oriente cominciata una quindicina di anni fa. Unicredit, per dire, spiega nel bilancio che l’area dell’Europa centro-orientale (escluse Germania e Polonia) vale quasi il 30 per cento dei suoi ricavi.
A scorrere le notizie delle ultime settimane, il quadro complessivo, visto dall’Italia, non può che apparire preoccupante. Così, se in riva al Danubio il populista Orban ha appena colpito gli istituti di credito locali con una raffica di nuove tasse, in Bulgaria, a metà luglio, la Banca nazionale è dovuta intervenire con un prestito di emergenza per evitare il crollo del mercato. A provocare il panico, con tanto di corsa agli sportelli, erano state una serie di voci allarmanti sullo stato di salute degli istituti locali. In Ucraina invece si spara, l’economia arranca e il governo si aggrappa ai prestiti del Fondo monetario internazionale (Fmi) per non andare in bancarotta. Kiev se la prende con l’aggressione teleguidata e foraggiata da Mosca, ma anche in Russia la situazione rischia di sfuggire di mano allo zar Vladimir Putin. Le sanzioni occidentali minacciano un’economia già in difficoltà per la continua fuga di capitali, a cui si aggiunge il timore di nuove fiammate dell’inflazione. Non per niente, venerdì 25 luglio, la Banca Centrale russa ha aumentato i tassi d’interesse, ora all’8 per cento, per la terza volta in cinque mesi.
A Milano, al quartier generale di Intesa così come ai piani alti della nuova torre di Unicredit, si ostenta tranquillità. Intanto però i rischi, e i costi, della crisi vanno aumentando. La più grande banca bulgara si chiama Bulbank e fa capo a Unicredit. Gli italiani sono sbarcati a Sofia nel 2000 e ora controllano il 15 per cento del mercato locale, con circa 200 filiali e 4 mila dipendenti. I conti di Bulbank appaiono nettamente più solidi rispetto ad altri concorrenti del posto. Nel 2013 i profitti sono calati del 20 per cento rispetto all’anno prima, ma il bilancio si è chiuso comunque in utile per circa 90 milioni di euro. Il dato più preoccupate riguarda le perdite su crediti, che sono in aumento, più 40 per cento nel 2013 sul 2012. E se l’economia rallenta le cose potrebbero andare ancora peggio.
I recenti scossoni sul fronte finanziario, con le voci sul crack di un paio di grandi istituti, non lasciano grande spazio all’ottimismo. E adesso ci si è messa anche l’instabilità politica. Il 24 luglio il capo dell’esecutivo Plamen Oresharski ha dato le dimissioni insieme ai suoi ministri e in ottobre ci saranno nuove elezioni. Nel frattempo si vive alla giornata, con la Banca Centrale bulgara che ha chiesto aiuto alla Bce di Francoforte per verificare lo stato di salute del sistema creditizio.
A Budapest, a differenza di Sofia, il governo resta ben saldo al suo posto, ma i banchieri sarebbero ben felici di un cambio della guardia. Da anni il premier Orban sta tartassando gli istituti locali e da ultimo, nelle scorse settimane, è stato approvato un nuovo decreto che obbliga le banche a risarcire i clienti che hanno subìto perdite sui prestiti in valuta. I mutui in franchi svizzeri, o anche in euro, andavano di gran moda alcuni anni fa. Fino a quando, con la crisi finanziaria internazionale, le quotazioni del fiorino ungherese sono crollate. Risultato: un esercito di debitori si è trovato con l’acqua alla gola, incapace di far fronte ai propri impegni. Adesso arriva il salvagente offerto dal governo, ma questa volta sono le banche a protestare, costrette a fronteggiare pesanti oneri imprevisti.
Nei giorni scorsi, Messina ha quantificato in 65 milioni, nel solo secondo trimestre 2014, le perdite dell’istituto di Piazza Scala per effetto delle nuove misure varate da Budapest. Per Cib Bank le cose vanno di male in peggio. Negli ultimi due anni, infatti, la banca ungherese targata Intesa ha già sommato oltre 600 milioni di perdite a causa del forte aumento dei crediti a rischio e anche del moltiplicarsi di tasse e balzelli vari sul sistema bancario. Unicredit, che in Ungheria controlla una rete di un centinaio di filiali, è riuscita a chiudere il 2013 senza perdite in bilancio, ma il risultato non è andato oltre i 21 milioni di euro, ridotto di due terzi rispetto al 2012. E quest’anno, per effetto degli oneri imposti dal governo, sarà un’impresa riuscire a mantenere i conti in linea di galleggiamento. D’altronde, per il momento, non si prospettano vie d’uscita dalla palude ungherese. A meno che la nazionalizzazione delle attività bancarie prospettata da Orban non si trasformi davvero in un paracadute.
La fuga dall’Ucraina, invece, è già cominciata da un pezzo, per lo meno nelle intenzioni. Unicredit ha messo in vendita la sua Ukrotsbank e in attesa che si faccia vivo un compratore il valore della banca di Kiev è già stato svalutato di 600 milioni nel bilancio della holding italiana. Intesa invece era già in vista del traguardo. Risale a gennaio il preliminare di vendita per la Pravex Bank, solo che nel frattempo il compratore è stato travolto dai guai. Il finanziere Dmitry Firtash pronto a sborsare 72 milioni di euro per rilevare la banca ucraina di Intesa, ad aprile è stato addirittura arrestato a Vienna (e poi rilasciato su cauzione) su richiesta degli americani per una vecchia storia di mazzette. Da allora l’operazione è rimasta in mezzo al guado, anche perché Firtash, considerato vicino ai filorussi, adesso non è esattamente l’uomo più popolare di Kiev.
Intesa non può fare altro che aspettare, nella speranza che la situazione prima o poi si sblocchi. L’avventura Ucraina, cominciata nel 2008, è già costata al gruppo italiano oltre 500 milioni di perdite e i conti di Pravex restano in rosso: meno 15 milioni nei primi tre mesi del 2014. Intanto, con le nuove sanzioni anti Putin varate dall’Europa e dagli Stati Uniti, il fronte della guerra, questa volta commerciale, si allarga a Mosca. E anche qui le due grandi banche italiane hanno importanti interessi da proteggere. Intesa controlla una rete di oltre 60 filiali, Unicredit è addirittura la più grande banca straniera in Russia. Come dire che entrambe hanno molto da perdere se la crisi si avvita.