Sandro Orlando, L’Espresso 1/8/2014, 1 agosto 2014
E A LUI DICO GRAZIE ZAR
A fine maggio, al forum economico internazionale di San Pietroburgo, erano presenti i vertici delle maggiori multinazionali, British Petroleum e Total, Danone e Philips, Deutsche Bank e Hyundai. Ai manager venuti da tutto il mondo per presenziare al più importante raduno di imprenditori e banchieri della Federazione, un evento che si celebra ogni anno nella fiera di quella che un tempo si chiamava Leningrado, Vladimir Putin aveva parlato per oltre un’ora di un unico tema: le sanzioni. La crisi ucraina era sullo sfondo ma, ancora, non si era verificata la strage dei 298 passeggeri del volo malese abbattuto dai ribelli armati da Mosca, che ha portato a nuovi provvedimenti punitivi di Unione Europea e Stati Uniti. Ma già allora il presidente non era andato tanto per il sottile: le sanzioni «hanno un effetto boomerang e si ripercuotono alla fine sugli affari e le economie dei Paesi che le impongono». «Avete investito in Russia centinaia di miliardi, avete successo», aveva incalzato, «perché dovreste offrire ai vostri concorrenti le posizioni che avete acquisito duramente in un mercato enorme: per assecondare una politica inconsistente?».
E così, solleticando la doppia morale del business, Putin era riuscito a strappare le risate e gli applausi dei presenti, fra i quali non mancavano Marco Tronchetti Provera (Pirelli), Gian Marco Moratti (Saras) e Claudio Descalzi, neo amministratore delegato dell’Eni, che era lì anche per firmare un accordo con Gazprom per la riduzione del prezzo del gas importato in Italia.
In quell’occasione lo zar del Cremlino aveva ricordato, con la consueta ruvidità, quello che la diplomazia internazionale sa bene. Non a caso il ministro degli Esteri, Federica Mogherini, si è sentita riproporre gli stessi argomenti dagli italiani di Mosca, nella controversa visita d’inizio luglio che l’ha fatta passare come «troppo vicina a Putin», indebolendo la sua candidatura ad alto rappresentante della politica estera di Bruxelles. «Siamo stanchi di sentir parlare di sanzioni, non sempre gli interessi americani coincidono con quelli dell’Europa, e tanto meno con quelli dell’Italia», le ha ricordato uno dei veterani della comunità degli espatriati tricolori, il presidente della filiale russa di Banca Intesa, Antonio Fallico, in un incontro all’ambasciata.
Interessi che per il nostro Paese si traducono in quasi 11 miliardi di euro di export contro i 20 miliardi di gas, petrolio e acciaio importati ogni anno dalla Federazione russa. Un interscambio che se da un lato fa dipendere l’economia nazionale dalle forniture energetiche di Mosca, dal lato delle esportazioni si è moltiplicato di quasi sette volte nei 15 anni di amministrazione Putin, grazie anche ai prodotti di fascia alta come abbigliamento, calzature, arredi, cibo: l’anno scorso ne sono stati venduti ai russi per oltre 3 miliardi di euro, che supereranno i 4 miliardi entro il 2019.
«Sono anni che qui siamo leader in questi settori, ma della Russia si parla solo male: neanche quando c’era la guerra fredda era così», esordisce Vittorio Torrembini, un altro dei decani della comunità moscovita. Già presidente di Confindustria Russia, questo manager piacentino che oggi fa il consulente d’impresa riassume così i cambiamenti dell’ultimo decennio: «Ancora fino al 2004 la stabilità dell’economia russa era poco più che una scommessa», spiega, «solo nel 2006 il rublo è stato dichiarato convertibile, e tutt’oggi il sistema doganale è inefficiente». Eppure nonostante i ritardi oggettivi che la Federazione sconta, con infrastrutture obsolete, un mercato del credito tutto da sviluppare, la presenza italiana è aumentata esponenzialmente: «Un tempo in Russia c’erano solo Eni e Finmeccanica, Fiat, Intesa e pochi altri, con i loro presidi storici», ricorda Torrembini. «Oggi qui sono registrate più di 400 aziende italiane, oltre a 200 joint venture, e tra negozi monomarca, filiali di banche e ristoranti, il totale delle nostre presenze supera le 1.300 unità». E questo perché la Russia, con i suoi 144 milioni di consumatori, di cui 26 milioni ricchi e benestanti, è un mercato strategico per il made in Italy. Più importante di Stati Uniti e Giappone, e della stessa Cina, che per molti resta ancora un bacino di manodopera a basso costo.
Vent’anni dopo la fine dell’Unione Sovietica la patria del comunismo è diventata insomma una sorta di El Dorado per chi produce beni di lusso o comunque destinati a un mercato di alta gamma. Vestiti e scarpe, mobili e arredi, gioielli e occhiali, cibi e vini: sono questi - calcolano gli analisti di Confindustria in un recente rapporto (“Esportare la dolce vita”, con focus Russia) - i settori che tirano di più, «grazie al boom di consumi della classe benestante che ha raggiunto livelli di reddito e sofisticatezza nei gusti che ben si sposano con l’offerta italiana». La parola d’ordine è diventata «a Mosca, a Mosca», come nel gran finale delle “Tre sorelle” di Anton Cechov: perché con più di 4 milioni di ricchi, milionari e oligarchi (su una popolazione di 12 milioni), e un reddito medio superiore ai 2 mila euro al mese (neonati compresi), la capitale russa è la meta più agognata. Non ci sono solo gli storici magazzini Gum, sulla Piazza Rossa, e TsUM, dietro il Bolshoi, un tempo prerogativa della nomenklatura di partito. Gli amanti del lusso ora hanno a disposizione anche un outlet tutto per loro, il Barvikha Village, immerso tra i boschi di betulle che circondano la Rublyovka, la Beverly Hills dei moscoviti, la zona residenziale più esclusiva di tutta la Federazione, al di là della tangenziale, dove ha la sua villa anche Putin. Con show room che sfoggiano Lamborghini e Ferrari, Maserati, Bentley e Harley-Davidson, boutique delle migliori griffe di moda, e gioiellerie da spavento.
Il Barvikha, che fa capo allo stesso gruppo Mercury proprietario dei magazzini TsUM, non è però l’unico tempio del consumo della città: solo nel 2013 sono stati inaugurati 11 nuovi centri commerciali di lusso, e altrettanti dovrebbero venirne aperti quest’anno.
Il più atteso è l’Avia Park, un gigante da 460 mila metri quadri di superficie, che si candida a diventare il mall più grande d’Europa, e sarà interamente rivestito dai marmi e quarzi di un’azienda veronese, la Stone Italiana. A beneficiare di questa corsa ai consumi di qualità, che sta contagiando tutte le metropoli russe con oltre un milione di abitanti, da San Pietroburgo a Ekaterinenburg (negli Urali) e Kazan (in Tatarstan), fino a Krasnodar (sul mar Nero) e Novosibirsk (in Siberia), sono innanzitutto imprese del nostro paese. «All’interno del Vegas, attualmente il più grande centro di shopping ed entertainment di Mosca, con 285 mila metri quadri di superficie, 22 sale da cinema, una pista di pattinaggio e una ricostruzione di Times Square, abbiamo 190 boutique tutte affittate a marchi italiani», racconta Roberto Righi, un toscano che lavora da più di vent’anni come direttore retail del gruppo Crocus, colosso immobiliare da due miliardi di dollari di fatturato che fa capo al finanziere azero Aras Agalarov, e che nella capitale ha costruito un’intera città satellite, nonché il quartiere fieristico, un auditorium e un centro direzionale, oltre a decine di mall e supermarket, ristoranti e banche. Tutti progetti che si sono avvalsi per lo più di materiali pregiati d’importazione italiana.
«Ai nuovi ricchi russi piace lo stile classico italiano. Marmi e piastrelle, porte e infissi, scale, bagni e sanitari, cucine e mobili: è tutto nostro, abbiamo quasi il monopolio», spiega Costante Marengo, architetto torinese che da due decenni, con la sua Arcos Interior, rappresenta il meglio che il nostro Paese può offrire in fatto di design. «Alla Mogherini l’abbiamo detto», continua, «la Russia è il mercato più importante che abbiamo, e stiamo rischiando di comprometterlo con la follia delle sanzioni».
Il successo dell’”italian style” ha attirato a Mosca una miriade di nostri architetti e decoratori d’interni: anche perché qui gli appartamenti nuovi si vendono «al grezzo», come si dice, cioè senza neanche le pareti interne, e c’è bisogno poi di chi progetti il resto. «Ce ne sono più di 600, che vanno e vengono, magari lavorando da casa senza studio», osserva ancora Marengo. «Molti sono riusciti ad inserirsi nel mercato immobiliare della capitale, che ha costi pazzeschi, rifornendosi su canali paralleli rispetto ai tradizionali distributori. E questo per contenere i prezzi».
Perché la novità, dopo la crisi del 2008, è che i russi hanno cominciato a fare attenzione a quanto costa quel che comprano: «Prima proporre uno sconto poteva risultare offensivo», racconta ancora Righi, «oggi i clienti confrontano i prezzi, chiedono quando cominciano i saldi, sono diventati meno esibizionisti». Anche perché la scelta è aumentata: Mosca è al quarto posto nel mondo per presenza di marchi stranieri, una concentrazione paragonabile a quella di New York. «Una volta era più facile, perché noi italiani eravamo in meno», ammette Silverio Marian, il principe degli arredi made in Italy, friulano a capo di una multinazionale con uffici in tutta l’ex Urss e 50 milioni di ricavi, la Wwts, che rappresenta un’ottantina di aziende: «Oggi non cresciamo più come prima, perché il mercato è rovinato da gente che arriva dall’Italia con l’acqua alla gola, ed è costretta a svendere per sopravvivere». «E poi sono cambiate le abitudini», aggiunge, «anche i russi preferiscono fare un viaggio in più, che spendere solo per la casa».
Questa diversificazione dei consumi ha portato a nuovi bisogni, anche nel mangiare. E così sono nate «boutique gastronomiche», specializzate nell’offerta di prodotti di qualità, come Azbuka Vkusa e Bakhetle, catene di enoteche (Aromatnyj Mir) e bar-pasticceria (Shokoladnitsa, Kofe House). E pure una valanga di ristoranti italiani, molti dei quali però di proprietà russa, come la catena di Arkadij Novikov, con 50 locali solo a Mosca, una delle vetrine più alla moda del food italiano. In attesa che il prossimo marzo venga inaugurato a Mosca il primo Eataly in franchising, all’interno di un nuovo mall in via di realizzazione accanto alla stazione Kijevskij. Un progetto guidato dal gruppo Patero, che prevede entro il 2016 l’apertura di altri tre punti vendita nella sola capitale, più lo sviluppo di ulteriori iniziative con Oscar Farinetti in altre repubbliche dell’ex Urss. Il responsabile di Eataly Russia, Yuri Tetrov, si dice sicuro: «Le sanzioni non ci toccheranno, dopo tutto non siamo McDonald’s!».