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 2014  agosto 01 Venerdì calendario

LA SPIA CHE SAPEVA TROPPO


Io credevo davvero nello slogan “speranza e cambiamento” della campagna elettorale di Barack Obama. E ne sono stato profondamente deluso. Credo per tre motivi. Prima di tutto, Obama non è il liberal che ci aveva fatto credere di essere. Di fatto, è piuttosto conservatore in tema di difesa, intelligence e politica estera. Secondo, come succede spesso con i presidenti che non hanno esperienza, si è fatto “reclutare” dalla Cia: ama i segreti, le operazioni d’intelligence clandestine. Terzo, credo sia una persona fredda, dura. Per esempio ha concesso meno grazie e commutato meno pene di qualsiasi altro presidente nella storia americana».
Ad esprimere questa delusione profonda è John Kiriakou, un ex agente della Cia che ha catturato pericolosi terroristi, ma che oggi paga con il carcere la sua scelta di aver detto la verità sulle torture usate dal governo americano nella lotta ad Al Qaeda. L’ex agente della Cia Kiriakou si confessa attraverso una lettera scritta a mano arrivata a “l’Espresso”dalla prigione di Loretto in Pennsylvania, Stati Uniti, dove è stato rinchiuso nel febbraio 2013.
Più che un detenuto, è un simbolo: l’emblema di tutto quello che è andato storto con la promessa di Obama di dare un taglio al passato, farla finita con le peggiori invenzioni della lotta al terrorismo modello George W. Bush. A partire da Guantanamo, che subito dopo l’elezione il presidente aveva giurato di voler chiudere. Eppure dopo quasi sei anni, non solo non è stato smantellato il campo di prigionia di massima sicurezza nella base navale americana sull’isola di Cuba, ma rimangono altre scomode eredità, come i programmi di sorveglianza di massa dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale (Nsa) rivelati da Edward Snowden. Le operazioni coperte proseguono persino ai danni degli alleati e hanno provocato un gravissimo scontro diplomatico con la Germania, dopo che un agente dei servizi tedeschi è stato arrestato con l’accusa di aver spiato per gli americani la commissione di inchiesta del Bundestag che indaga sulle attività della Nsa. Uno scandalo che si è andato ad aggiungere a quello delle rivelazioni sul telefonino di Angela Merkel, spiato probabilmente per dieci anni dalla Nsa, e che ha portato all’espulsione del capocentro della Cia a Berlino, come se fossimo ancora nel mezzo della Guerra fredda, anziché in piena era Obama.
Né l’amministrazione democratica se la sta cavando meglio con il capitolo nero delle torture. Un report di oltre seimila pagine della commissione del Senato, costato quattro anni di lavoro e 40 milioni di dollari, doveva essere desecretato, almeno in parte, mesi fa. Si sa che contiene verità scioccanti, storie di brutalità «molto peggiori di quelle che la Cia aveva comunicato ai parlamentari», come ha raccontato nell’aprile scorso il quotidiano londinese “Guardian”. Ma il report non ha mai visto la luce.
Perché Kiriakou incarna il simbolo di tutte le promesse tradite dal presidente? Semplice: è l’unico agente Cia che in piena era Obama è finito in prigione non per aver praticato le torture, ma per averle denunciate. In altre parole, di decine o forse centinaia di agenti e contractor che si sono macchiati di gravissime violazioni dei diritti umani nessuno è stato messo in carcere, tutti rimangono impuniti e liberi, mentre Kiriakou, che ha denunciato pubblicamente tecniche disumane come il waterboarding, la pratica di tenere i prigionieri con la testa sott’acqua fino ai limiti dell’annegamento, senza averle mai praticate si è ritrovato dietro le sbarre. Un paradosso. O, meglio, il simbolo di una giustizia alla rovescia.
Quarantanove anni, americano, figlio di immigrati greci di solida fede democratica, laurea e master alla George Washington University, Kiriakou viene arruolato nella Central Intelligence Agency da un professore universitario che nota il suo talento analitico. Dopo anni come analista del Medio Oriente, impara l’arabo e passa all’incarico di agente operativo, che invece di studiare le informazioni da un ufficio le raccoglie e rischia la pelle sul campo. Sono gli anni Novanta, viene inviato in Grecia a combattere l’organizzazione clandestina 17 Novembre ed è in quell’occasione che si occupa di terrorismo rosso. «Studiavamo la storia del terrorismo in Italia, soprattutto come il governo italiano era stato capace di fermare le Brigate Rosse», scrive a “l’Espresso” nella sua lettera: «Le analizzavamo da vicino per capire se c’era qualcosa che il governo italiano aveva fatto con successo e che noi potevamo fare contro l’organizzazione rivoluzionaria 17 Novembre in Grecia, ma le Br erano molto più sofisticate e ideologiche di 17 Novembre, che era più che altro un’organizzazione criminale. Avevano anche legami con altri gruppi terroristici europei, che i greci non avevano».
L’11 settembre cambia il mondo. John Kiriakou finisce a guidare l’antiterrorismo nella regione più calda del pianeta: il Pakistan. È lì che, secondo quanto racconta nel suo libro “The Reluctant Spy” (La spia riluttante), mette a segno uno dei risultati più importanti: la cattura di Abu Zubaydah, un operativo ritenuto molto vicino a Bin Laden. «La leadership della Cia ci aveva detto che la tortura aveva funzionato su Abu Zubaydah», scrive, «ma qualche anno dopo il rapporto dell’ispettore generale ci mostrava che aveva subito il waterboarding 83 volte: e quindi è chiaro che non aveva funzionato», commenta Kiriakou, sottolineando che, «considerazioni etiche a parte, io ancora non credo che la tortura funzioni davvero». Poi aggiunge che agli ufficiali della Cia «viene insegnato come mentire con grande efficacia»: «Di fatto mentono gli uni con gli altri tutto il tempo. Hanno perfino mentito con noi, all’interno dell’antiterrorismo, per convincerci che, sebbene la tortura fosse una cosa terribile, stava comunque funzionando e stava salvando delle vite americane».
Negli anni in cui queste violenze imperavano, racconta Kiriakou, «quasi nessuno alla Cia sapeva. Era un segreto tenuto molto stretto all’interno del centro antiterrorismo. Una volta che divenne pubblico, però, da quello che potevo capire era molto impopolare tra gli agenti». Racconta di «aver rifiutato di essere addestrato nelle tecniche di tortura perché avevo problemi morali». E precisa: «Quando mi fu chiesto se volevo essere addestrato in quelle pratiche, fui una delle due persone che rifiutarono».
Negli ultimi tredici anni di questa terribile guerra al terrorismo, quanto è stato massiccio l’uso della tortura da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati? «Non credo che mi sia permesso rispondere a questa domanda», ci scrive, cosciente del fatto che la sua lettera prima di esserci recapitata deve andare incontro alla censura carceraria: «Direi comunque che ci sono molti governi in giro per il mondo che dovrebbero assolutamente vergognarsi». E il governo italiano? I nostri servizi segreti, che di fatto hanno cooperato con le “extraordinary rendition”, i sequestri clandestini di persone ritenute in contatto con Al Qaeda, hanno avuto un ruolo anche in queste pratiche? «Non ho mai sentito nulla che indicasse che il governo italiano avesse qualcosa a che fare con la tortura. Di fatto, sulla base di quello che capivo, il vostro governo era fortemente contrario ad essa», risponde.
Nel 2007 John Kiriakou si espone: «Ho parlato pubblicamente delle torture nel dicembre 2007 perché il presidente George W. Bush si preparava ad ammetterle, dicendo però che lui non le aveva autorizzate. Era una menzogna. La tortura era una politica ufficiale del suo governo. Non era l’abuso di alcune mele marce nella Cia». Con Kiriakou la giustizia è implacabile: finisce rovinato dalle spese legali, perde la casa, è condannato a 30 mesi di prigione, che sta scontando. Lui, padre di cinque figli, oggi è in bancarotta e deve sperare nelle donazioni per mandare avanti la sua famiglia (www.defendjohnk.com). Per aver fatto cosa? Avere denunciato, aver fatto emergere un abuso, come hanno fatto Chelsea Manning, la fonte di WikiLeaks, Julian Assange, Edward Snowden e Tom Drake, il dirigente della Nsa che, prima di Snowden, ha denunciato gli abusi dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale. «I leader della comunità d’intelligence americana sono tutti chiari sul fatto che Assange, Manning e Snowden sono le più grandi minacce alle loro operazioni segrete nel 21esimo secolo», scrive Kiriakou.
Guardando indietro, metterebbe ancora il suo talento al servizio della Cia? «Io sono realista: ci sarà sempre una Cia. Ci sarà sempre una comunità d’intelligence. E io ho fatto con piacere la mia carriera alla Cia e sono fiero del buon lavoro che ho realizzato lì», replica elencando i premi importanti che gli sono stati assegnati per la sua attività: «Lavorerei ancora nell’Agenzia, se potessi farlo, ma lo farei per cambiare l’organizzazione dall’interno e attraverso i tribunali».