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 2014  agosto 01 Venerdì calendario

HANNO SBANCATO PIACENZA


Zeus irato scaglia i suoi fulmini contro il carro dell’arrogante Fetonte lanciato verso il Sole, lo spezza, i cavalli impazzano, una ruota rotola via. Il minaccioso affresco domina dalla volta la sala di palazzo Rota-Pisaroni, da sempre il salotto buono di Piacenza: nell’Ottocento vi si esibiva e riceveva, era casa sua, la grande soprano Rosmunda Benedetta Pisaroni, oggi vi si riuniscono i 25 del Consiglio generale della Fondazione di Piacenza e Vigevano, che qui ha sede da quando è nata nel ‘91, emanazione dell’allora Cassa di Risparmio. Fossimo in un dramma classico, l’iracondo Zeus sarebbe lui, Francesco Scaravaggi, ingegnere, figura storica del volontariato cattolico e uno stretto legame con la Diocesi, dal marzo 2013 presidente della Fondazione che della città è il tesoretto e la cassaforte: stufo marcio di sentirsi scavalcato dal suo vicepresidente, il banchiere Beniamino Anselmi, a metà giugno Scaravaggi fulmina il consiglio di amministrazione, sei persone da lui stesso nominate, e gli ingiunge di dimettersi. Ma del dramma classico la vicenda della Fondazione non ha né i crismi né i protagonisti, piuttosto di una pochade tra malintesi e tiri mancini: così, quando va in scena il Consiglio generale, ai voti viene rigettata la destituzione d’imperio del cda, e a casa va lui, il presidente della società civile. Che, si scopre, non è Zeus ma l’ultima ruota del carro, la prima a saltare.
Ora sono tutti costernati, Comune, Provincia, Curia, Confindustria e potentati dell’assistenza, alla ricerca di una soluzione. Che sia, manco a dirlo, di garanzia, pulizia, trasparenza. E rimetta in sesto i conti. Già, perché dal 2006 a oggi il patrimonio della Fondazione s’è paurosamente assottigliato. In sunto (i dettagli nel riquadro a fianco) un milione di euro è finito su una banca di Gibuti, Corno d’Africa, e non se n’è più saputo nulla, soldi azzerati a bilancio tre anni fa. Più di 50 milioni sono evaporati per un investimento farlocco del 2008 in Banca Monte Parma, giusto un momento prima che la crisi la mettesse in ginocchio. Altri 200 milioni in titoli se ne sono andati per due mesi in vacanza su un conto svizzero, senza alcuna sensata ragione evidente e senza che fosse chiaro neppure chi di quel conto deteneva la firma.
Azzardi e batoste della finanza, si dirà. Sì, ma la Fondazione non è una banca d’affari, e per statuto il suo tesoretto serve a nutrire associazioni, mostre, scuole, ospizi, ospedali e quant’altro: nel piacentino e, per la sua quota del 12 per cento, nel vigevanese. Meno soldi in cassaforte uguale meno elargizioni al territorio: che infatti sono crollate dai 9 milioni del 2011 ai 5 e mezzo del 2013 (dati del presidente Scaravaggi). Se si aggiunge che, per ridurre i rischi, altri 60 milioni prima investiti in obbligazioni bancarie sono stati blindati in titoli di stato con scadenza al 2044 e risultano dunque indisponibili per un paio di generazioni, i rivoli di denaro sembrano destinati a prosciugarsi sempre più.
Un grosso guaio, per questa città di centomila abitanti usa a campare in un quieto tran tran, pacata fino alla noia se la centrale e assai bella piazza dei Cavalli alle sei di sera è già quasi deserta, e quando la birreria Merluzzo agli omonimi giardini prova a ridestare un po’ gli animi con un concerto contro il degrado subito si becca una supermulta per inquinamento acustico. Male non ci si vive neanche ora che la disoccupazione è salita dal 3 al 9 per cento in tre anni, in questa città delle tre “c”, cento caserme, cento chiese, casini in numero non censito. Mantiene il primato in Italia per scolarizzazione degli extracomunitari, marocchini, albanesi e macedoni assai meglio integrati che altrove. La logistica è cresciuta fino a diventare un perno dell’economia locale. Grazie all’export resistono meccanica e meccatronica, qui costruiscono parti del motore Ferrari e i carrelli dei Boeing. Ci fossero soldi e progetti, la sola valorizzazione dell’enorme Arsenale militare sarebbe una straordinaria occasione di crescita.
Probabilmente è proprio da questo tranquillo senso di benessere di provincia che scaturisce l’aria di costante melina in cui tutto resta sottotraccia, compresi i disastri della Fondazione finché non si scoprono i buchi. E anche allora le guerre faticano a diventar cruente. Il fatto è che, confessa il sindaco Paolo Dosi, «a Piacenza ci conosciamo uno per uno, tutti hanno rapporti con tutti, le cose son mescolate». Detto con meno tatto da Mauro Ferri, direttore del sito piacenzasera.it, «un ceto di intoccabili e inamovibili si spaccia per la società civile buona contro una politica impicciona, con la quale marcia invece a braccetto e fa affari». La mattina ci si scontra, la sera si va a cena insieme.
Un’atmosfera curiale, e l’aggettivo non è scelto a caso. La geografia del potere ne è lo specchio. Dosi, il sindaco pd, renziano come il suo predecessore per due mandati Roberto Reggi ora sottosegretario all’Istruzione, è di formazione cattolica e non ha problemi a dirsi vicino alla Curia. Massimo Trespidi, presidente della Provincia, pdl ora Nuovo Centrodestra, viene da Cl e Compagnia delle Opere. Insieme, i due, hanno proposto come successore di Scaravaggi alla Fondazione il presidente dell’Ordine provinciale dei notai, Massimo Toscani: ma, lamenta Dosi, «quando mi son tenuto indietro mi han dato del latitante, ora propongo una soluzione di garanzia e mi accusano di ingerenza...» Alla Diocesi fanno riferimento parte di Confindustria, il grosso del volontariato, vari sindaci dei Comuni rappresentati in Consiglio generale. L’attuale preside di Economia della Cattolica, Anna Maria Fellegara, era assessore della giunta Reggi e consigliere della Fondazione.
Insomma, quasi tutti i fili finiscono al palazzo vescovile. Viene in mente il maestro Lucio Mastronardi (come non leggerselo quando, benché in subordine, c’è di mezzo Vigevano): «Le proverbiali braccia di monsignore, che come remi di barcé affondavano nelle capaci casse delle banche». «Ma no!», replica il vescovo Gianni Ambrosio, vicino al cardinal Bertone, a Milano nel cda della Cattolica e a Roma presidente della Commissione episcopale scuola e cultura: «nella Fondazione la Diocesi non ha che un seggio su 25, nel volontariato cattolico c’è legittima libertà di opinione e più della geografia del potere è l’orizzonte che conta, che va recuperato e ridisegnato. Lo sforzo della Curia ha il solo scopo di trovare una sintesi per il bene della collettività».
Quando però chiedi all’ingegner Scaravaggi chi gli propose la presidenza della Fondazione e poi gli suggerì chi nominare nel cda, risponde: «Fu un laico mandato dalla Curia, sa, mi conoscevano, per anni sono stato consigliere dell’Istituto per il sostentamento del clero, impegnato nella Protezione della giovane, responsabile con mia moglie dell’Ufficio famiglie della Diocesi. Non sospettavo, allora, tutto il lavorìo che c’era sotto la mia nomina. Un bidone? Non posso dire che abbiano profittato di un re travicello per fare chissà quali affari, no. Ma questa Fondazione è semisgretolata. I nomi del cda? Me li hanno dati la Diocesi, Confindustria, i vigevanesi». E Anselmi, il vicepresidente con cui ora è in rotta? «Era nelle grazie della parte che ha portato la mia candidatura. Lui è un banchiere, io di finanza, l’ho detto subito, non capisco niente. Mi sono fidato. Ma venivo a sapere solo il mercoledì ciò che lui aveva fatto il martedì! Almeno ditemele, le cose, visto che poi la firma ce la metto io! Anselmi è così, guai se non comanda...»
Trovato l’uomo nero, il perfido banchiere che trama nell’ombra, nato per combinazione lo stesso giorno di febbraio di 72 anni fa del suo avversario? «Ma per carità!», ribatte Anselmi, furioso perché nell’accavallarsi delle voci c’è chi prova ad appioppargli un ruolo nell’acquisto del 15 per cento di Banca Monte Parma compiuto nel 2007 dall’allora presidente Giacomo Marazzi, ex-ad di Cementirossi, espressione di Confindustria: «Quell’anno ero a Palermo, amministratore delegato del Banco di Sicilia, la Fondazione a malapena sapevo che esistesse, non avrei mai suggerito di comprare una partecipazione di minoranza per giunta in una banca non quotata: se pago 70 milioni voglio comandare, non ubbidire! Il vescovo? Mai visto prima. Quanto al resto, da che ci sono io abbiamo fatto solo operazioni di conservazione e messa al sicuro del patrimonio, il presidente era sempre informato di tutto, l’unica battaglia che ho fatto è per definire regole certe e trasparenti sull’erogazione dei fondi, proposte mai applicate dal presidente. E per razionalizzare un po’ la spesa: qualcuno mi spiega com’è che sprechiamo 60 mila euro l’anno per riscaldare un enorme palazzo, lascito di Maria Luigia, dove son ricoverate solo due anziane signore e un gatto?»
E i 200 milioni in titoli spostati in Svizzera dal precedente direttore, che per questo è stato cacciato? «Ah, che razza di storia! Io avevo detto mai e poi mai, mentre ero in vacanza in Sardegna il presidente ha firmato, salvo scusarsi per essersi fidato. Appena saputo abbiamo dato ordine di far rientrare quei titoli. Ma non è tutto: il nuovo direttore ha scoperto un altro conto, aperto su una piccola banca spagnola a Londra, mai movimentato...» Spiegazioni? «Ah, e chi lo sa. Magari qualcuno all’estero stava tirando un bidone alla Fondazione: abbiamo trovato un pezzo di carta in inglese di una finanziaria olandese, un bozza di accordo senza firma, voi datemi i titoli, noi vi paghiamo in 30 giorni...»