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 2014  agosto 01 Venerdì calendario

HOMO RENZIANUS


Il prototipo è Matteo, altro che Telemaco, l’uomo vitruviano, la misura di tutte le cose, invisibili, come il patto del Nazareno, e soprattutto visibili, perché nella nuova era quello che prima veniva sussurrato ora va gridato dai tetti, o almeno rimbalzato su twitter. Dopo cinque mesi dell’anno primo dell’era renziana, con il Senato che resiste al Generale Agosto e i mille giorni di governo che verranno, Matteo Renzi si sente oltre: oltre la rottamazione, oltre gli 80 euro, la riforma della Costituzione, il 40,8 per cento alle Europee. Ambizioni da poco per uno come lui. Cambiare l’Italia, o almeno gli italiani: «Firenze ha fatto Dante, e Dante ha fatto l’Italia. O perlomeno l’italiano», scriveva da sindaco due anni fa. «Dante ha inventato l’italiano fondando un’appartenenza proprio dall’esilio: costretto a mangiare “lo pane altrui”». Parlava del sommo poeta ma alludeva a sé. Suggestione: sostituire il Renzi a l’Alighieri a Dante e oplà, il gioco è fatto.
Il renzismo è un anestetico di massa. Che per ora conta più della cura. I cento giorni diventano mille, e forse domani diecimila, chissà. La crescita non c’è, ma che importa, «che la crescita sia 0,4 o 0,8 o 1,5 per cento non cambia niente», postula il premier. Il Senato è la madre di tutte le battaglie, per mesi Renzi ha ripetuto che Angela Merkel non vedeva l’ora che arrivasse la riforma di Palazzo Madama, ma ora che l’aula si è trasformata in un Vietnam, tra sedute notturne, canguri e tagliole, da Palazzo Chigi arriva il contrordine: conta l’economia, mi occupo della Libia, non delle poltrone dei senatori. E non sai se sia il Senato il Truman Show oppure il contrario, la trasformazione dell’Italia in un grande reality. In cui gesti, parole, manie, difetti e strabismi del premier diventano moda. Inizio della Terza repubblica, o forse ultimo trastullo di un Paese arrivato allo stremo.
In attesa della crescita economica c’è la conquista dell’immaginario. Ecce Homo Renzianus. Una specie di automa di Vaucanson. La nuova creatura che si aggira in Italia, specchio del grande capo che invade i salotti televisivi, dilaga in Rete, conquista le copertine pop, ipnotizza intellettuali, imprenditori e berlusconiani. Anche in Europa, dove pure la nomina di Federica Mogherini alla commissione Ue è bloccata, il premier festeggia le imitazioni: dopo il francese Manuel Valls, lo spagnolo Pedro Sanchez, in camicia bianca e sorriso strafottente pari all’originale, che giura: «Renzi è il mio riferimento».
La creatura, in apparenza pacifica in realtà spietata, nasce con l’esilio (dorato) di Matteo a Palazzo Chigi. Dove “lo pane altrui”, segnalano gli scribi renziani, sono le pizze consumate nei cartoni sulle consoline Luigi XV. La bevanda ufficiale è la Coca Cola, che ha rispedito nelle cantine le grandi etichette di rosso. Il nuovo potere è il low profile: «Ciao, sono Matteo…». Già, come papa Francesco, telefona a destra e a sinistra senza segreterie, schivando diciture ufficiali e inaugurando la stagione del “fast calling”. Ultima rivoluzione negli usi e nei costumi della Repubblica, dalla cravatta (out) al darsi del “lei” (preistoria). Il renzismo non è un’ideologia, parolaccia desueta, non è l’accumulo di un Pantheon sentimentale, come postulava Walter Veltroni, e neanche l’identificazione con una biografia di successo, tra l’American way of life e Alberto Sordi, come succedeva con Silvio Berlusconi. È uno stil novo: generazione Erasmus sì, ma nel senso de “L’appartamento spagnolo”, il film cult del 2002 in cui più che imparare le lingue si faceva casino. Il renziano è un po’ boy scout un po’ House of Cards. Entusiasta e cinico, incosciente e calcolatore, ossessivo come un giocatore di scacchi e superficiale come un hashtag. Soprattutto innamorato di se stesso, perché nell’età del narcisismo ci siamo entrati e usciti da un pezzo. E di noi non resterà che un Selfie.
TRISTI FRENATORI
Un selfie che si moltiplica per milioni di italiani. Il perfetto seguace di Matteo è un tipo pratico, pragmatico. In perenne, mitologica lotta contro i nemici «gufi e rosiconi». Qualunque sia il suo lavoro, lo status sociale, il suo sogno nel cassetto, il renziano “fa” e se la prende con chi «vorrebbe che tutto andasse a rotoli». «Noi siamo quelli che vogliamo cambiare», è il refrain nell’aula del Senato. E chi non ci sta? È uno fuori dalla storia, frenatore, professorone, seminatore di tristezza.
Il nuovo bipolarismo: chi fa contro chi frena. Sindacati, senatori, burocrati. Ma c’è chi, imitando il premier, estende le categorie a tutti, in particolare ai critici. «Sono dispiaciuto per chi aspettava di dire: io l’avevo detto!», ha ironizzato il prefetto della protezione civile Franco Gabrielli, dopo l’attracco a Genova dei rottami della Concordia riemersa dalle acque del Giglio. E dire che finora Gabrielli era stato l’ombra di Enrico Letta, cortese e garbato, mimetico e lavoratore, senza proclami, senza strafare, lontano dal modello-Cavaliere di Guido Bertolaso. Ora eccolo renzizzato, all’attacco di chi vorrebbe l’Italia come la Concordia di Schettino e non quella di Sloane.
Prendi Francesco Piccolo. Lo storico liberale Giovanni Orsina si permette di obiettare garbatamente sul romanzo vincitore del premio Strega “Il desiderio di essere come tutti” e lo scrittore si indigna: «Orsina esprime una caratteristica italiana: il “mai abbastanza”. Non basta dire qualcosa, si doveva dirlo prima e di più. Che è poi, guarda caso, quel che in politica blocca ogni riforma». Che cosa c’entra? Niente, ma attribuisce a Piccolo l’aura renziana. Chi mi critica rosica.
PROFESSIONE FOLLOWER
Il Cavaliere nell’immaginario dei suoi fan rappresentava “il migliore”, inimitabile. Per il renziano, invece, il premier è “Matteo-uno-di-noi”, uno alla pari, soltanto con più amici e più followers, proprio come accade su twitter, il veicolo su cui far viaggiare rapidamente il Verbo. E così a Beppe Grillo che lo accusa di #colpodistato, in pochi minuti Matteo ribatte che il suo è #sidicesole, e l’Italia sotto l’ombrellone si divide in due. Perché se per Grillo il blog, come i social media, è il luogo della denuncia, la gogna dove esibire il nemico, la piattaforma libera dove svelare i complotti, per l’homo renzianus internet è simbolo di novità, di velocità e di cambiamento. E infatti il premier esibisce l’iPhone sempre in mano, l’iPad sui banchi del governo, parla per hashtag. «Ok, ok, ora levategli twitter, per favore #cosedilavoro», ha scritto sull’amato social Filippo Sensi, suo guru comunicativo ma anche tweet-star, celato si fa per dire dietro il nickname “nomfup”. Niente titolo di onorevole, come era per il portavoce di Berlusconi Paolo Bonaiuti, niente ruoli di governo, Filippo è l’ombra di Matteo e nei vertici ufficiali si mette dalla parte del pubblico, della gente normale, twitta le foto di Renzi come le vedrebbe un passante. L’effetto è quello della web community dove Renzi è “uno di noi”, mentre il circo mediatico continua a girare a vuoto. E così la moda è dilagata e fra ministri, onorevoli, politologi si moltiplica la corsa a ritwittare il premier, trasformando gli hashtag nei tormentoni di giornata. Chissà quanto l’avrebbe invidato Vittorio Orefice, cronista-principe dei corridoi della Prima Repubblica: lui le veline di palazzo Chigi le ribatteva a macchina.
TRA FONZIE E BARACK
Il renziano non ha bisogno di essere milionario, né imprenditore, né troppo perfetto nel look. Anche se quanto a vanità fa impallidire il vecchio Silvio, con la sua disperata opera di costante restauro estetico, fra tacco, toupé e cerone. Fighettismo da compagni di classe o di branco, guardate qui, sembrava dire a Genova nell’ultimo fine settimana, ho le scarpe tricolori, voi ancora non ve le siete comprate... Matteo è il ritratto di Dorian Gray a rovescio. Si presentò nel 2012 alle primarie contro Bersani in splendida forma, fra fughe in bicicletta da palazzo Vecchio e palestra, ma poi - una volta entrato nel Palazzo - ha messo su qualche chilo. Quasi una metafora per l’homo renzianus: la burocrazia, i papaveri, il potere corrompe e deforma. I suoi lo inseguono, dal chiodo di pelle alla Fonzie fino alle camicie bianche d’ordinanza con la manica tirata su, alla Obama. La cravatta scompare dai giornalisti in conferenza stampa, dai conduttori tv. Perché dietro il bottone aperto, c’è la sintesi, la velocità, la fretta, la modernità del renzismo. E se Giorgio Armani si permette qualche perplessità («Renzi è adorabile, ma con quella camiciola bianca... »), un altro sarto si erge in sua difesa. È Ermanno Scervino, stilista fiorentino che veste (spesso) Renzi e (molto spesso) la first lady Agnese. Il look di Matteo non è un vezzo ma una «dimenticanza», spiega, perché l’homo renzianus ha altro a cui pensare che gli addobbi: «È così impegnato, si sta dannando l’anima per questo Paese».
TESTIMONIAL AVANTI A SINISTRA
Dopo i già variegati - per censo, età, professione - renziani della prima ora schierati sul palco della Leopolda con l’ex sindaco di Firenze e col suo modello di Pd, dopo Diego Della Valle e Oscar Farinetti, lo stilista Brunello Cucinelli, lo storico ad Fiat Paolo Fresco, o Pippo Baudo e Monica Guerritore, da quando Renzi è a Palazzo Chigi i fan son sempre di più. Frequentare il renzismo impegna meno, molto meno, che aderire alla sinistra o schierarsi con Berlusconi. È più “smart” come smart è il suo leader. Un mix di impegno civile e di una certa aria sbarazzina, quasi pop. Da Pif a Gene Gnocchi, da Edoardo Nesi (trafitto, per poco, sulla via di Mario Monti) a Alberto Nagel, ad di Mediobanca, passando per l’industriale Massimo Carraro e Carlin Petrini di Slow Food, il Renzi style trova sempre più testimonial. Tanto da contaminare i mondi più tradizionalisti d’Italia, dalla finanza alla grande industria. Fino a “renzizzare” città intere, come la verde Treviso, governata per due decenni dalla Lega dello sceriffo Gentilini con percentuali bulgare. Alle amministrative, puff, s’è convertita a Matteo, alle europee il Pd ha toccato quota 46 per cento, manco fosse la rossa Bologna. E così ai vertici delle categorie venete, il big diventa renzianus, con endorsement dagli artigiani e ammiccamenti da Confindustria. «Non certo perché siamo diventati di sinistra», spiega un imprenditore trevigiano, «ma perché il modello anti-burocrazia, il dinamismo sono la versione 2.0 dei miracoli promessi e non mantenuti da Silvio».
TG SECONDO MATTEO
È un virus che contagia anche, soprattutto la tv. Volti e conduzioni, ma anche le scalette dei tiggì. Il piccolo schermo è l’habitat naturale. Carlo Freccero studia da mesi il mutamento in atto: «Il potere oggi è altrove, è internazionale, sfuggente, il leader deve essere capace di intrattenere. E di costruire l’agenda di un potere simulato diventando protagonista dei notiziari che, sempre di più somigliano a quelli dell’Istituto Luce». Il premier occupa, plasma fatti e personaggi, fa sue polemiche e festeggiamenti, riforme e leggi. Diventa un format: dalla banana mangiata con Cesare Prandelli, dopo gli insulti razzisti a Dani Alves, fino all’arrivo in Italia della giovane sudanese Meriam, passando per la Costa Concordia: «È la leadership della decoratività», spiega Freccero, «che funziona con i tempi, i ritmi, le pause della tv». D’altra parte, Renzi è nato in uno studio tv. «La prima Leopolda è stata “La ruota della fortuna” con Mike Bongiorno, e ha contagiato lui e le altre Leopolde. Se la riflessività di Letta creava angoscia, mostrava che c’erano problemi, la faccia di Renzi ha proprio l’effetto Mike, è tranquillizzante». I talk mutano pelle. “Porta a Porta” di Bruno Vespa effettua, secondo Freccero, un processo di renzizzazione. E, pur senza la scrivania del Cav, nei faccia a faccia chi conduce è ancora il premier. Il Tg1 di Mario Orfeo «si è invece de-berlusconizzato, ma conserva un certo distacco, sembra apolide, impermeabile al renzismo», continua Freccero. Poi ci sono programmi renziani per stile, velocità, più che per contenuto. «Enrico Mentana ha nel dna la praticità, schiva le ideologie, sposa il dinamismo». E così La7, se si esclude Giovanni Floris «che ama le statistiche, i grafici, alla Monti», è forse la rete che assomiglia di più al premier in fatto di stile. «Giulia Innocenzi, positiva, concreta è assieme a Mia Ceran su Raitre il primo prodotto finito dell’era renziana». Su Michele Santoro, spiega Freccero, va sospeso il giudizio, «perché una mutazione c’è stata ma non si può inserire fra gli interpreti del tempo nuovo». La rete più mutata nel dopo-Silvio, infine, è Sky. «La Fox, come in America è bushista, in Italia è renziana».
HOMO, DONNA E PURE OMO
In Parlamento l’homo renzianus non si comporta da politico, ma da antidoto all’antipolitica. E così non solo le parole d’ordine sono quelle del capo, ma anche i gesti e le espressioni del volto. Luca Lotti fa la faccia di Renzi-che-medita. Sguardo verso il vuoto, mano destra al mento. Dario Nardella quella del Renzi-stupito. Occhio dilatato e bocca stretta. Davide Faraone ritrae invece il Renzi sconsolato, che allarga le braccia. Ma i legami con Matteo sono anche simbolici. Il deputato Ernesto Carbone, celebre dopo avere accompagnato Renzi a palazzo Chigi con la sua Smart blu, è quasi trasformato nella metafora del “niente sprechi”. E se la donna berlusconiana, Mara Carfagna in testa, ha lottato per anni contro il luogo comune “bellezza uguale carriera facile”, costretta a look rigorosi, tailleur abbottonatissimi e colletti alti a mo’ di chador, la lady renziana #cambiaverso e sdogana un neo-femminismo. Non più accompagnata da B., ma da Renzi, che sembra il fratello maggiore, o l’amico del cuore, la donna può sedurre, può mostrarsi, come se fosse a passeggio con mamma. Basta osservare Maria Elena Boschi, che cambia look ogni giorno. Dagli abiti coloratissimi con cui prende le distanze dal grigiume del Palazzo, fino ai cappelli della donna-lavoratrice e alle magliette azzurre da tifosa. La giovane madre che lavora, altro must renziano, è incarnata da Marianna Madia che sembrava – pur giovanissima – in via di rottamazione per i suoi trascorsi veltronian-piddini. Ma Matteo l’ha convertita. E lei, mamma e ministro, compita produce il suo autodafè: «Ho sbagliato. Non mi ero accorta di quanto l’Italia avesse bisogno di lui».
Perfino il gay si riforma. Addio alla all’intransigente lottatore alla Aurelio Mancuso, o alla verace schiettezza abruzzese di Paola Concia, che stracciavano la tessera in faccia a Rosy Bindi. L’omo renzianus, senza acca, sta lì per il curriculum, o perché parla le lingue. Media con tutti, teodem in primis, come fa Ivan Scalfarotto allergico allo scontro, aperto alle larghe intese perfino sull’omofobia. Sull’ultima uscita di Renzi, congelare il disegno di legge sulle unioni civili annunciando una proposta del governo, ha ribattuto anche lui sulla falsariga dei gufi: «Alzare i toni non aiuta a raggiungere gli obiettivi».
SOGNANDO CASTROCARO
Berlusconi aveva scritto l’inno di Forza Italia di suo pugno, il renzismo ce l’ha una sigla? «Certo», dice un osservatore non renzista, Roberto D’Agostino: «È X Factor, è Amici... è il sogno della provincia italiana, il sogno di andare a Castrocaro o a Sanremo, il sogno di stringere la mano a Maria De Filippi e dire: “Oddio ma esisti. Grazie di esistere!”». È questo, secondo D’Agostino, il senso profondo del fattore Amici: la sinistra di Renzi non sogna Woodstock, né un vero conflitto sociale o generazionale. La rottamazione sta nel fatto che «si può ascoltare Vasco Rossi, Ligabue o Jovanotti, ma li si ascolta come si ascolta Claudio Villa».
Il rottamatore, dunque, non è in conflitto con chi rottama. Sta sereno, come l’hashtag più celebre del premier rivolto a Enrico Letta prima della defenestrazione, «non cerca nella musica l’idea di scontro sociale che c’era in Frank Zappa o in Bob Dylan. I testimonial musicali servono per definire un popolo, un’Italia a cui parlare».
Stesso discorso per la filmologia renziana. Nanni Moretti addio, addio Caimano, addio pellegrinaggi da Pasolini in vespa e «anche in una società più decente di questa mi ritroverò in minoranza». Il regista di riferimento è Fausto Brizzi con la sua “Notte prima degli esami”, la paura e la voglia di diventare grandi, di sognare l’America in Italia: «Brizzi ha celebrato il suo matrimonio su una spiagga a Sabaudia, sotto un grande arco del trionfo di drappi che guardava l’orizzonte. Quel po’ di California che piace al renziano», racconta D’Agostino.
Renziano è vincere. Prandelli era renziano prima dei mondiali, dopo che ha perso non lo è stato più. Vincenzo Nibali non era renziano prima del Tour de France, anzi, sembrava Letta, dopo lo è diventato, a causa della vittoria. Paolo Sorrentino si è trasfigurato renziano a Los Angeles, dopo aver conquistato l’Oscar con “La grande bellezza”, lo spirito di revanche verso i critici lo ha aiutato. Francesco Piccolo era renziano fin dal titolo del suo libro, essere come tutti, dopo aver vinto lo Strega lo è ancora di più. Anzi, si candida a essere l’intellettuale di riferimento del tempo nuovo, citato (da tutti), è stato di sinistra (come tutti) e ora spera che Renzi «faccia le riforme» (come tutti). Oddio: e se l’homo renzianus fosse soprattutto un conformista? n
NEO-FEMMINISMO ALLA BOSCHI
Maria Elena Boschi, 33 anni, ministra per eccellenza
del governo. Bella e sensuale ha un look molto libero, tipico del neo-femminismo renziano. Dal tailleur sgargiante, alla felpa fino al cappellino da cuoca. Addio all’era berlusconiana di Mara Carfagna, quando la donna era costretta a vestire in modo “irreprensibile” per schivare i luoghi comuni sulle carriere facili
EMULI DEL LEADER
Parole, opere e omissioni. Già, come un dettame evangelico, i modi di dire di Matteo Renzi, i suoi gesti e pure le sue pause, i suoi silenzi, sono il pane quotidiano dei suoi fedelissimi. Sempre più costruiti a immagine e somiglianza del capo. Basta guardare questi fotogrammi: qui sopra Renzi allarga le braccia sconsolato, proprio come nella foto a fianco fa il fedelissimo Davide Faraone.
E ancora, a destra, di nuovo Renzi, stavolta con la mano sul mento in una posa riflessiva. La stessa di Luca Lotti.
IL MANIFESTO DI PICCOLO E LA FUGA DI NIBALI
“Il desiderio di essere come tutti”. Il libro di Francesco Piccolo, premio Strega, sembra un manifesto dell’”uno di noi”. Di fronte a una critica, l’autore ha ribattuto: «Esprime una tipica caratteristica italiana: “il mai abbastanza”», altro must renziano. “Eroe” di era renziana è diventato anche Vincenzo Nibali, vincitore del Tour de France.