Wlodek Goldkorn, L’Espresso 1/8/2014, 1 agosto 2014
AL POSTO DI NETANYAHU
[Colloquio con Isaac Herzog] –
«Che da noi si richiedono standard diversi rispetto ad altri Paesi che hanno dovuto combattere il terrorismo. Io capisco e sono d’accordo col fatto che non si può continuare ad ammazzare la gente. Ma occorre tener presente che non si possono tollerare le strutture militari di Hamas. Senza un loro smantellamento non si risolve il problema alla radice. Ciò detto, esiste una questione di rapporti personali tra il premier e il presidente americano Barack Obama. Netanyahu è legato alla destra americana, al magnate Sheldon Adelson, sponsor dei repubblicani. Infine non va sottovalutata la visione del mondo di Obama: pensa che tutti i problemi possano essere risolti con un negoziato e un dialogo. In Israele, dove si ha a che fare con Hamas, un’organizzazione che usa la popolazione come scudi umani e che usa i soldi arrivati dal Qatar per armarsi, è difficile condividere questo modo di pensare. Aggiungo un’altra annotazione. Pensiamo all’Egitto. L’Europa protesta contro le violazioni dei diritti umani da parte del regime. E va bene. Ma bisogna capire che l’Egitto è oggi l’epicentro dello scontro epocale che sta spaccando in due l’intero mondo arabo: da un lato i laici, pur rispettosi della tradizione religiosa, e dall’altro gli integralisti. Non è un conflitto dove è possibile un compromesso: ecco perché i laici, volenti o nolenti, hanno appoggiato il colpo militare. Per tornare alla questione palestinese, Hamas ha sequestrato gli abitanti di Gaza, mentre continua a proclamare la volontà di distruggere Israele. E allora come si può pensare di rimanere inermi? Lo dico da leader dello schieramento che si batte per la pace».
Mi scusi, ma dalle sue parole non è facile capire la differenza tra lei e Netanyahu.
«La differenza è evidente. Io sono a favore di un trattato di pace, al più presto possibile, con Abu Mazen. Io mi fido di Al Fatah (la storica organizzazione nazionalista e laica di cui il presidente palestinese è il leader, ndr). E anzi, io penso che un modo per uscire dalla crisi attuale potrebbe essere quello di aiutare Abu Mazen a rientrare in gioco a Gaza».
Sta dicendo che Abu Mazen deve fare una guerra civile per conto di Israele?
«No, il contrario. L’accordo che Fatah ha fatto con Hamas mesi fa, e che Netanyahu ha giudicato come una sciagura, può fornire invece la base politica per il ritorno dell’Autorità palestinese nella Striscia, fino all’assunzione del controllo delle frontiere».
Crede che Abu Mazen sarebbe disposto a farlo? È presidente di un’entità che non è uno Stato sovrano, e non per colpa sua.
«È un uomo coraggioso. E la società civile palestinese lo appoggia. Ma capisco le sue difficoltà: noi israeliani non abbiamo saputo dare alcuna speranza di un futuro migliore a lui e al suo popolo».
E allora cosa fare?
«Definire le frontiere. Il punto è questo: Israele deve ritirarsi entro i confini del 1967. Penso che sarebbe logico uno scambio di territori: noi ci prendiamo una piccola percentuale del loro, là dove sono concentrati i maggiori insediamenti (si tratta di circa il tre per cento della Cisgiordania, ndr) e diamo loro in cambio altrettanta terra, oggi parte del nostro Stato. Gerusalemme, la vedo come capitale di due Stati, ma unita. Però non mi stanco di ripetere che il pubblico israeliano è disposto ad accettare questa soluzione solo se gli viene garantita la sicurezza. E il mio compito è dare agli israeliani una visione di pace realistica e fattibile». n
Se in Israele esistesse l’aristocrazia, Isaac Herzog, il 53enne leader del partito laburista e capo dell’opposizione, l’uomo che pensa di poter battere Benjamin Netanyahu alle prossime elezioni (o di diventare premier con una manovra parlamentare) ne sarebbe uno dei più importanti esponenti. Suo nonno, di cui porta il nome, fu il primo Gran Rabbino dello Stato ebraico, ma prima ancora, nato in Inghilterra, fu in Irlanda “il rabbino di Sinn Féin”, il movimento indipendentista del Paese.
Il padre di Herzog è stato presidente di Israele, mentre la madre viene da un’importante famiglia sefardita d’Egitto. Lui stesso è stato più volte ministro, e anche sottosegretario alla presidenza del Consiglio ai tempi delle trattative di pace tra Ehud Barak e Yasser Arafat. A novembre scorso ha scalato il vertice del suo partito, facendo destituire dalla leadership la sua predecessora Shelly Yachimovich, tutta concentrata su questioni sociali.
Per Herzog, invece, la priorità è la pace, la sicurezza d’Israele e un sistema di alleanze regionali, come spiega in questa intervista, concessa mentre stava andando a visitare le famiglie dei soldati caduti nella guerra di Gaza.
Onorevole Herzog, i rapporti tra Israele e gli Stati Uniti sono tesissimi. L’opinione pubblica mondiale è molto critica nei confronti di quello che sta facendo il governo di Gerusalemme. Cosa sta succedendo al suo Paese?
«Preferisco analizzare la situazione in termini regionali e non locali, altrimenti non si capisce niente. Per cominciare, i governanti dei Paesi del G7 comprendono benissimo la necessità di Israele di difendersi da Hamas. Ma il vero problema, a lungo andare, è l’ondata di fondamentalismo islamico che sta arrivando dall’Est, dalla Siria, dall’Iraq, da quell’organizzazione che si chiama lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante. In questo senso, Israele fa parte di una coalizione filo-occidentale che si oppone agli integralisti. Di questa coalizione fanno parte pure la Giordania, l’Egitto e, ovviamente, l’Autorità palestinese».
E allora dov’è il problema?