Gloria Origgi, MicroMega 5/2014, 1 agosto 2014
L’ISTINTO MATERNO NON ESISTE
ÉLISABETH BADINTER
Benché le differenze tra il femminismo italiano e quello francese siano molte, e benché sicuramente il ruolo della donna/madre in Italia sia costruito su un modello diverso da quello francese, devo dire che quando il mio libro, L’amore in più (Longanesi), uscì in Italia nel 1981, un anno dopo la sua pubblicazione in Francia, ebbe un grande successo. Significa che anche in Italia c’era un femminismo pronto ad accogliere il mio punto di vista radicale, ossia che l’amore materno non è innato e che la condizione dell’essere madri non è una condizione naturale.
Trent’anni dopo, e dopo la pubblicazione di un altro libro sulla questione: Le conflit. La femme et mère (Flammarion, 2010), riaffermo la mia posizione: il destino della donna non è quello di essere madre! La maternità è da demitizzare: non è il compito naturale delle donne quello di diventare madri. Oggi assistiamo a nuove forme di naturalismo e di tradizionalismo che, a partire da finti presupposti biologici, incitano le donne a stare a casa ad allattare i figli (prendiamo il caso delle varie associazioni e leche leagues, che incoraggiano le donne ad allattare i figli a oltranza, impedendo loro così di ritornare presto a lavorare). I modelli femminili che si distanziano da questo ruolo di presunto «animale materno» sono criticati anche dalle donne.
La mia è una tesi filosofico-storica: la mia filosofia è basata sulla ricostruzione di prove storiche, una metodologia che ho ripreso in parte dallo storico dell’infanzia Philippe Ariès, e che sicuramente e stata resa celebre in Francia da Michel Foucault. Il mio libro però uscì prima della Storia della sessualità di Foucault. Sicuramente e un libro che va nello stesso senso dell’opera di Foucault, ossia di critica agli universali psicologici, biologici e morali che sarebbero a fondamento della natura umana, e di ricostruzione di una storia molto più variegata, complessa, influenzata dalle epoche, dagli incidenti di percorso, dalle mode e dalle leggi. Benché dunque anche il mio libro si possa leggere come una sorta di «genealogia» dell’amore/istinto materno, le mie domande di fondo sono però molto diverse da quelle di Foucault. Quello che mi ossessiona ancora oggi è comprendere la volontà delle madri nel XVII secolo di abbandonare i figli appena nati nelle mani di balie miserabili a chilometri di distanza dalla loro abitazione, assicurando loro così un destino estremamente incerto e una probabile morte precoce. A differenza di Foucault, io non penso che questo sia frutto solo di rapporti di potere e dominazione: se certe madri si liberavano dei figli nel XVII secolo, questo non accadeva solo sotto la pressione del modello di potere maschile dominante, ma anche perché molte di esse non sopportavano il pesante fardello della gravidanza e preferivano disfarsene. Ovviamente i fattori sociali giocano un ruolo: abbiamo a che fare con matrimoni forzati di spose/bambine che restano incinte praticamente ogni anno. Inoltre, come ho mostrato nel mio libro, molti altri fattori influiscono: l’urbanizzazione per esempio, molto di più della povertà, dato che le statistiche di affido dei neonati alle balie mostrano che le donne contadine erano in grado di tenere i figli presso di sé più facilmente delle donne commercianti urbanizzate.
Ma la categoria per la quale non c’e spiegazione è quella delle donne aristocratiche, che avevano i mezzi per tenere i figli con sé, per amarli e per occuparsene, e che invece preferivano disfarsene. La mia spiegazione non è dunque semplicemente sociale, ma più profondamente psicologica: bisogna ammettere che l’amore materno non è un istinto, ma il frutto di un delicatissimo equilibrio di condizioni che, se non si realizzano, non producono semplicemente alcun sentimento. A dimostrazione di questo posso citare una quantità di dati diversi che ho preso in considerazione nel mio libro, ma forse il più sorprendente è il seguente: le madri non sapevano letteralmente dove inviavano i loro figli. Le balie erano analfabete e non sapevano scrivere il loro indirizzo. Le madri non avevano quindi notizie dei figli per mesi, a volte anni e, se i figli morivano, come spesso accadeva, non andavano nemmeno al funerale. Inoltre, le madri non esitavano a utilizzare la stessa balia e riaffidare un secondo o terzogenito anche dopo il decesso di un figlio. Philippe Ariès e altri storici hanno interpretato questa incuria come un modo di difendersi dall’alto tasso di mortalità infantile all’epoca: inutile affezionarsi a bambini che hanno un’altissima probabilità di morire. La mia spiegazione è esattamente opposta: l’alto tasso di mortalità infantile dipende invece dall’incuria delle madri e dalla totale mancanza di interesse sociale per i bambini, considerati ancora all’epoca come «animali», o «giocattoli», esseri insomma senz’anima e senza morale nei quali si insidiavano tutte le tendenze perverse e malevoli della natura umana.
Se pensate al «bambino re» dei secoli successivi, fino al «bambino tiranno» della nostra epoca, la differenza è interessante. Quel che mostro nei miei libri è che il ruolo centrale del bambino nella famiglia è molto recente, che l’istinto di sopravvivenza delle madri nel passato era molto più forte dell’istinto materno, e che il bambino/centro del mondo del presente non è un passo avanti per il femminismo, e forse nemmeno per i diritti dell’infanzia.
Se per fortuna una maggiore consapevolezza dell’infanzia si è instaurata nella cultura occidentale a partire dal XVIII secolo, ciò non significa che l’amore materno sia diventayo d’un tratto un istinto naturale.
La costruzione dell’amore materno alla fine del XVIII secolo dipende da una serie di cambiamenti culturali e di nuove ideologie. Per prima cosa, ci si inizia a rendere conto dell’interesse «economico» della progenitura per lo Stato: nella nuova economia politica del XVIII secolo, lo Stato deve produrre cittadini/soldati, soggetti economicamente e politicamente attivi, e il ruolo della donna in questo nuovo sistema di produzione è quello di occuparsi della sopravvivenza dei futuri cittadini. La donna e così inserita nella macchina produttiva dello Stato moderno. In secondo luogo, la filosofia illuminista introduce nuovi principi di uguaglianza, sostenendo che la famiglia è la sola istituzione politica naturale, e «naturalizzando» così il ruolo della madre, il cui compito è quello di vegliare sulla crescita dei figli. La donna, che per alcuni illuministi può finalmente essere considerata una cittadina «uguale», non è uguale però per funzione naturale, il che giustifica la sottomissione economica all’uomo e il suo ruolo principale come madre e allevatrice dei figli. L’amore materno fu dunque introdotto anche come legittimazione dei ruoli «naturali» nella famiglia.
Il femminismo di oggi, soprattutto americano, con il suo naturalismo, la sua morale del care per cui le donne sarebbero eticamente più portate a occuparsi degli altri, a considerare la dimensione della vulnerabilità umana eccetera, rischia secondo me di reintrodurre degli a priori naturalisti su cosa significa la femminilità e l’essere donna. È vero anche che la filosofia del care viene dal femminismo americano e che è lo stesso femminismo americano che ha prodotto Judith Butler, che è invece agli antipodi di questo approccio. E per quanto la Butler di Gender Trouble sia stata per me una lettura eccitante e sconvolgente, penso che la sua tesi di fondo sia delirante: pensare che il genere sia interamente costruito, che non ci sia nessuna realtà biologica che distingue i maschi dalle femmine non solo è delirante, ma non porta da nessuna parte. Qual e la società che Butler auspica? Una società senza distinzioni sessuali? Per chi e in che senso sarebbe un passo avanti? Nel femminismo americano dunque troviamo di tutto: dall’ipernaturalismo degli istinti materni di Sarah Hardy, fino all’iper-costruttivismo della Butler.
Io penso semplicemente che il femminismo di ogni specie e cultura dovrebbe uscire una volta per tutte dal vittimismo. Riconoscere la differenza delle donne non significa riconoscerne la vulnerabilità, la maternità e l’affettività. Abbiamo esempi quotidiani, per esempio in politica, che una donna in posizione di potere ne abusa tanto quanto un uomo, che l’aggressività femminile, benché possa esprimersi con altri mezzi, non è meno pericolosa di quella maschile. Prendiamo una serie di tabù di cui non si può parlare, come la pedofilia femminile. Una decina di anni fa, la sociologa francese Anne Poiret scrisse un libro, L’ultime tabou (Patrick Robins, 2006), un’inchiesta sulle donne incestuose e pedofile in diversi paesi. Benché il fenomeno della pedofilia sia più frequentemente maschile, esiste una pedofilia femminile ed esistono casi di incesti e di molestie sui bambini da parie delle donne, anche se non se ne parla perché siamo tutti schiavi dello stereotipo della donna/madre benevola e sacrificale nei confronti dei figli. Esistono anche statistiche sulle violenze domestiche delle donne sui bambini e anche sui mariti o compagni. Non c’è nulla nella «natura» di una donna che ne fa un essere più docile, affettuoso e caritatevole rispetto a un uomo. Siamo solo state costruite così dalla società.
Se le donne vogliono veramente cambiare, devono cambiare gli stereotipi su loro stesse che sono le prime ad accettare. Ma questo significa accettare anche una parte di contraddizione e di visione di sé che può non piacere. Una delle grandi cause di infelicità umana è il rapporto malriuscito tra genitori e figli, frutto di aspettative reciproche impossibili da soddisfare, coltivalo nel senso di colpa, che la psicoanalisi ha contribuito in modo nefasto ad alimentare nelle madri, iper-responsabilizzandole nello sviluppo dei figli. In questo senso la psicanalisi è l’ultima incarnazione dell’ideologia a difesa della famiglia nucleare moderna.
Per uscire da questo scacco perenne, dove il più grande investimento affettivo, economico, simbolico, della nostra vita ha quasi sempre risultati mediocri (quale madre intelligente può dirsi completamente soddisfatta della relazione con i suoi figli? E quale figlio non critica i genitori?), dobbiamo cominciare a cambiare il modo in cui ci vediamo come donne.
(a cura di Gloria Origgi)