Guido Ceronetti, Corriere della Sera 1/8/2014, 1 agosto 2014
LA TRAGEDIA INFINITA DEL 1914-18
Per il cinema è molto più facile trattare della Grande guerra, nel corso dei cento anni passati i registi ci sono ripetutamente tornati, oggi si moltiplicano i dvd settimanali, le rievocazioni mediatiche secondo le date non mancheranno. Capirla, almeno un poco, è un’altra cosa. Ma tutto questo non trasmette emozioni, e di guerre in corso o pronte a ricominciare ne abbiamo a iosa. Manca perfino, qui nell’Europa oggi pacificata, la sensazione dei pericoli incombenti. E il teatro?
Il teatro trasmette emozioni, come e più del libro, oppure esiste poco o ci fa esistere poco. Io mi sono assunto l’impegno di dire la Grande guerra per mezzo del teatro, l’estate del centenario sta passando, e io, dopo lunghe ricerche, mi sento a disagio. Quella storia malsana non è finita, questa è la verità. Si è diversificata e ramificata: finita no. C’è rimasto impigliato il destino umano. Fu la prima guerra escatologica; gli storici hanno torto quando fissano il suo esito terminale nel 1945. La moderna storiografia, eventuale-fattuale o concettuale, ignora il principio ermetico fondamentale: «Come in cielo così in terra», e si guarda bene dal connettere fatti e concetti con un principio metafisico che ci lasci libere, slegate, le mani di aggrapparsi, come nel tragico greco, ad un punto fuori del mondo. Leon Bloy vedeva, morendo nel 1917, una imminente epifania messianica, aspettava il Paracleto, il consolatore Spirito Santo. Non venne, perché quella guerra non era l’ultima.
Soffiar via i luoghi comuni che si sono incrostati agli eventi, con il solo capovolgimento ideologico, dalla demenza patriottico-nazionalista alla retorica delle visioni pacifiste, non è che possa far nascere una riscrittura mentale della guerra Quattordici-Diciotto in grado di comprenderne con più larghezza d’ali il senso. Quel che non è venuto allora verrà al suo tempo. Chi potrebbe raccontare la congiura delle Idi di Marzo privandola dei sogni, delle visioni, delle premonizioni, dei segni che hanno accompagnato Cesare fino all’ora delle ventitré pugnalate? Anche la Grande guerra ne gronda, e non raccontare tutto questo è rinunciare a dare a quel subbuglio di orrori il senso sacrificale purificatore.
Che cosa può fare il teatro per suscitare in un pubblico indifferente un’emozione che non si limiti a far per un momento riflettere su una rivelazione del dolore e a consumare un rimpianto? Lavorando sul simbolico, un teatro povero e di strada come il mio — siamo artisti di strada anche se ospiti di un grande teatro in sala chiusa, il Grassi di Milano, e solitamente si va in scena con due o tre attori (stavolta addirittura con cinque) — può farsi un efficace alambicco dell’essenza della Grande guerra.
II simbolo sostituisce milioni di soldati, di cannoni, di mitragliatrici, e miliardi, trilioni di menzogne, di parole dell’odio per indurre ad uccidere e a farsi uccidere; il simbolo è l’evento depurato delle falsificazioni dell’avvenuto che non si può negare avvenuto. Dunque in poco più di un’ora di spettacolo si può dar fondo a tutto senza lasciare spazio a quel che Peter Brook dice essere il peggior nemico dei teatranti: la Noia. Come Miguel Hernández, attingendo il sublime, dice che in un pezzetto di carne può starci un uomo intero (Il treno dei feriti ), così in una messinscena di artisti di strada può starci la totalità di una guerra escatologica dalla bisettrice spalancata sull’infinito del futuro umano.