Danilo Taino, Corriere della Sera 1/8/2014, 1 agosto 2014
VIAGGIO TRA VINO E HIGH-TECH NELLA CALIFORNIA CHE CRESCE E SPOSTA GLI USA SUL PACIFICO
DAL NOSTRO INVIATO SACRAMENTO (California) — Jock O’Connell spiega il mondo nuovo dei commerci con la parabola delle «Ciliegie di Chongqing». Racconta che fino al maggio scorso gli agricoltori californiani non riuscivano a vendere i loro prodotti freschi nelle regioni interne della Cina. «Dovevamo fare la dogana in una città costiera, in un porto d’ingresso designato, e solo dopo mandare i prodotti sui mercati dell’interno. Arrivavano mezzi marci», racconta O’Connell. Alla fine di un’azione di lobbying sulle autorità di Chongqing — città della Cina centrale con più di sette milioni di abitanti, secondo centro automobilistico del Paese — finalmente, due mesi fa, i produttori di ciliegie californiane hanno potuto fare i controlli doganali sul posto.
«Trecento chili di ciliegie come primo esperimento — ricorda O’Connell —. Metà regalate ai dignitari locali, metà messe nei negozi di lusso cittadini. Vendute in due ore al prezzo stabilito dai negozianti: 75 dollari al chilo. Sbalorditivo: nei supermercati di Sacramento sarebbero andate via per 3 dollari. Questo ci rivela la potenzialità del grande mercato cinese. L’Europa per noi resta importante ma io vedo il mondo dal Pacifico: e qui siamo di fronte a sviluppi di enorme portata». O’Connell è il consulente per il commercio internazionale del Center for International Trade Development a Sacramento, un’agenzia pubblica nella capitale dello Stato della costa Ovest degli Stati Uniti. Non ha dubbi sulla direzione verso cui guardare: «Il nostro oceano è questo». Nella dinamica «costa Est contro costa Ovest», la nave Stati Uniti sente sempre di più l’attrazione del Pacifico e deve tenere l’occhio sulla bussola della California, il Golden State lontano da Washington e New York, affacciato sull’immenso lago che condivide con America Latina, Australia e Asia.
La California è il maggiore produttore agricolo d’America. Agricoltura sofisticata e ad alta tecnologia: «Trattori Google senza guidatore, sensori nei terreni collegati a droni, computer nelle stalle», spiega Rick Pickering, Ceo della Fiera di Stato, a Sacramento. Ma è anche molto di più. Se fosse indipendente, sarebbe l’ottava economia del mondo, quasi 2.200 miliardi di dollari di Prodotto interno lordo, più della Russia o dell’Italia. E, in tutti i settori, la realtà consolidata in California è che la frontiera continua a spostarsi verso Occidente, che da qui è ciò che noi europei chiamiamo Oriente, i nuovi mercati in espansione del Pacifico. Per capire la nuova geografia dell’economia del mondo, ormai un fatto, e la nuova geopolitica, in divenire, bisogna capire la California, lo Stato più ambizioso d’America, lo Stato delle auto a basso inquinamento, della Silicon Valley, dei vini, delle ciliegie e delle mandorle, di Hollywood, dei garage innovativi e delle medie e piccole industrie aggressive. Un’economia che, anche se a fatica, sta riorientando l’America e disorientando l’Europa.
«La nostra grande spinta, ora, è finalizzata a entrare nei mercati dell’Asia — dice Nick Bruno, proprietario e presidente della Harris and Bruno International, un produttore di macchine per la stampa e di componenti, con filiali in Europa —. La Cina ha una classe media più grande di quella americana e ora vuole prodotti confezionati, con buona qualità del packaging. E questo vale per tutta l’Asia. L’Europa resta importante, ma non avrà gli stessi tassi di crescita». Michael Parr, vicepresidente per le vendite internazionali di Wente — l’azienda vinicola famigliare più antica della California, nella Livermore Valley — cita alcuni numeri che illustrano il futuro del settore: «Tra il 2000 e il 2012, i consumi di vino sono scesi del 12% in Francia e del 27% in Italia ma sono aumentati del 37% negli Stati Uniti e del 63% in Cina». Qui si apre il problema politico.
Parr dice che le tariffe doganali all’importazione di vino sono del 7% negli Stati Uniti, del 35% nell’Unione Europea, del 14% in Cina. Ovviamente i produttori californiani — di Wente, della Napa Valley o della contea di Sonoma — vogliono ridurre queste barriere che limitano le esportazioni. Gli Stati Uniti stanno negoziando due grandi trattati commerciali, uno transatlantico con la Ue, chiamato Ttip, uno transpacifico con una decina di Paesi (Cina esclusa), chiamato Tpp. Un obiettivo, su ambedue i fronti, è azzerare o ridurre al minimo le tariffe doganali (e le barriere non visibili, come i ritardi alle frontiere e le burocrazie). Per le aziende vinicole, azzerare le tariffe europee è una buona cosa, ma non tale da perderci il sonno: nella Ue il mercato è in calo e, soprattutto, saldamente occupato dai produttori locali; la vera opportunità è l’Asia, per molti versi terra ancora vergine per i vini, dove la competizione con australiani e neozelandesi è forte. E quel che vale per il vino vale per quasi tutto: le tariffe doganali tra Usa e Ue sono già molto basse (in media il 4%), mentre nel bacino del Pacifico all’opportunità dei mercati in crescita si somma la possibilità di abbassare le barriere a export e import, spesso alte.
«Per noi californiani è più interessante il Tpp», afferma senza esitazioni O’Connell. Dal Los Rios Community Center di Saramento, dove sono gli uffici del Centro per lo sviluppo internazionale del commercio, non ha timidezze nell’esporre la sua idea di geo-economia. «Noi abbiamo una visione del mondo radicalmente diversa da quella di altri Stati — dice —. Siamo una potenza del Pacifico, il nostro interesse maggiore è lì. Il nostro primo partner commerciale è il Messico, anche se non il migliore: perché vi esportiamo componenti che vengono assemblate nelle maquilladores e poi reimportate. Ma è tutto il resto della regione Asia-Pacifico l’area di maggiore sviluppo. È lì che vogliamo fare scendere le barriere al commercio, che si tratti di tariffe o di ostacoli non visibili, come nel caso delle ciliegie di Chongqing. Tra l’altro, noi di origine europea siamo già minoranza in California rispetto a ispanici, cinesi, vietnamiti, giapponesi. Gli Stati Uniti cambiano in demografia e in direzione, anche se questo non si riflette ancora nella politica estera americana».
Per chi vede il mondo dall’Europa, prendere atto dello scivolamento di interesse di una parte consistente dell’economia americana verso il Pacifico non può più essere un esercizio teorico di dispute geostrategiche. Si tratta di una realtà che si sta concretizzando nei due grandi trattati commerciali che Washington sta negoziando. Il presidente Obama ha deciso nel 2009 di riaprire il tavolo con i Paesi del Pacifico, per evitare di perderli e spingerli nelle braccia della Cina: parte del famoso «pivot asiatico» della Casa Bianca. Fatto quello, non poteva non fare lo stesso con gli alleati storici atlantici. Ma, per buona parte dell’industria americana, il Tpp ha un potenziale più rilevante, e in teoria potrebbe allargarsi alle due economie per ora escluse, quelle della Cina e dell’India. «Da subito, se approvato, il Tpp spingerebbe Pechino e Delhi a misurarsi con le nuove regole che esso prevede per i commerci nella regione», sostiene Garrett Workman, direttore associato dell’Atlantic Council a Washington. E «la Cina sta mostrando un forte interesse ad aderire al Tpp — dice Fred Bergsten, uno degli esperti di politica ed economia più ascoltati a Washington, fondatore del Peterson Institute —. Non so se gli Stati Uniti e gli altri la accetteranno, ma è una possibilità».
In questo quadro, per l’Europa rafforzare i legami commerciali e regolatori con l’America, cosa che si sta facendo nei negoziai del Ttip, significa rimanere nel grande gioco. Non è un passaggio senza difficoltà: sul tavolo ci sono questioni molto sensibili. Per esempio, l’Italia spinge sul riconoscimento delle identità geografiche, cioè sul divieto di usare nomi italiani (o di ogni altro Paese o regione) su prodotti che italiani non sono. Gli americani replicano che si tratta di protezionismo mascherato e di un’idea superata di commercio. «È Nuovo mondo contro Vecchio mondo», sostiene Shaun Donnelly, un vicepresidente dello Us Council of International Business. Sarà scontro, ma si tratta di differenze che l’Europa ha un forte interesse a superare.
Il Ttip, certe volte chiamato Nato economica nel senso di alleanza commerciale tra Usa e Ue, sarebbe un buon passo se fosse realizzato: «È un’opportunità generazionale» di quelle che non si presentano di frequente, sostiene Julieta Noyes, vice assistente segretario al Dipartimento di Stato di Washington. Ma, soprattutto, sarebbe grave, per l’Europa, se fallisse: «Se il Ttip non avesse successo, avremmo una grande, ulteriore diversificazione commerciale dell’America verso l’Asia, a maggior ragione se in parallelo avessero successo i negoziati transpacifici Tpp», sostiene Hosuk Lee-Makiyama, direttore dell’European Center for International Political Economy (Ecipe) di Bruxelles. È il famoso battito d’ali di una farfalla in California che provoca un terremoto in Europa.