Alessandro Dell’Orto, Corriere della Sera 1/8/2014, 1 agosto 2014
«IO, TRASFORMATO IN PEDOFILO DA UN TEOREMA»
[Intervista a Gianfranco Scancarello] –
Un libro sul tavolo: Il demone della paura di Zygmunt Bauman. Lo sta leggendo lei?
«È un’analisi su come la società ci fa vivere su modelli uniformati dalle paure. Glielo regalo: le piacerà. La paura va affrontata, non evitata».
E lei, Gianfranco Scancarello, chissà quante ne ha combattute in questi otto anni da presunto “orco”. Accuse di pedofilia, l’arresto, il carcere, processi mediatici e giudiziari, l’assoluzione. Il momento peggiore?
«Sera del 24 aprile 2007, cella di isolamento a Rebibbia. Sono appena stato arrestato. Buio, silenzio. Da fuori, improvvisamente, sento urlare il mio nome da più persone. Una, due volte. Insulti. Minacce. “A’ Scancare’, con la tua testa ce giocheremo a palla”. “Te veniamo ad acchiappa’ mostro de regazzini”. La mattina dopo pum pum vengo svegliato da strani rumori: sono i sassi e la terra lanciati dal campo di calcio contro la finestra a piano terra. ni di isolamento, gente agli infettivi, urlano tra loro: “Sai che fine je faranno fare a questo?”. Ma non solo».
Cioè?
«Oltre alla preoccupazione per la mia incolumità ho avuto paura per i miei figli. Tra il 12 ottobre 2006 e il 24 aprile 2007 via Flaminia è stata tappezzata di minacce: “Morte ai pedofili”. Durante l’arresto mi hanno concesso di fare una telefonata: ho chiamato Marcello, allora 23enne, e gli ho detto di prendere le sorelle e portarle via di casa».
Gianfranco, c’è invece una paura che non ha ancora superato?
«Ce ne sono due. Non sopporto le voci dei bambini: il giorno della scarcerazione sono andato a Ikea con la famiglia e sono dovuto scappare».
Nemmeno i nipoti?
«Con loro va meglio grazie a mia figlia Immacolata. Si è presentata una mattina e ha chiesto a me e mia moglie di tenere il bimbo per due settimane. È stata una buona rieducazione».
La seconda paura?
«Che capiti ad altri quanto successo a me. Ti svegli una mattina, dei bambini ti accusano di essere un pedofilo e devi essere tu a dimostrare il contrario. Capisce? È come essere ucciso da un colpo di P38 alla testa. Ci hanno radiografato tutto: casa, conti in banca, internet, telefoni. E non hanno trovato nulla. Bastava questo, forse, per immaginare che dei genitori di mezza età non potessero diventare improvvisamente pedofili e mettere su una banda criminale con tanto di bidella e cingalese. Servivano otto anni per capirlo?».
Approfondiamo. Tre giorni fa sono stati depositati i motivi della sentenza di appello che ha confermato le assoluzioni. Si legge: “I minori furono influenzati dai genitori e gli stessi genitori intrecciarono le loro esperienze sino a determinare un inestricabile reticolo”.
«Già, un reticolo. Bastava scorrere le denunce e saltava fuori come si era arrivati alle accuse. Con condizionamenti a catena e i genitori riuniti che interrogavano i figli. Un contagio collettivo».
E poi. “L’accusa non ha trovato alcuna conferma, e pur tuttavia ha proseguito nell’iter giudiziario via via ridimensionandosi nelle imputazioni, negli imputati...”.
«“Tuttavia”. Ecco, in questa parola c’è tutto. Dovevano dimostrare a tutti i costi qualcosa. Il problema è il metodo. Se ho dei dati, li verifico e formulo un’ipotesi. Nel caso di Rignano invece si è partiti da una teoria e si è fatto qualsiasi cosa per cercare di dimostrarla».
Ancora. “...le dichiarazioni dei minori spesso sono incompatibili tra loro; talvolta sono prive d’intrinseca credibilità e coerenza, facendo riferimento a fatti inverosimili, che suscitano dubbi in ordine alla capacità dei piccoli di discernere tra fantasia e realtà”.
«Mi chiedo. Se i bimbi fossero stati davvero drogati e seviziati per un anno come si diceva nelle accuse quando ogni giorno alle 16 tornavano a casa, i loro genitori come facevano a non accorgersene?».
Le motivazioni la soddisfano?
«Mi ridanno serenità perché sono come una pietra tombale sulla vicenda. Ma le stesse cose le avevano già dette il Tribunale del Riesame e la Cassazione (il 18 settembre 2007 la terza Sezione Penale della Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso della Procura di Tivoli decidendo che gli accusati restassero in libertà n.d.r.). Ora è stato aggiunto un “tuttavia”...».
Otto anni da incubo. Come è cambiato Gianfraco Scancarello? «A livello umano è stato devastante. Tutto ciò che avevo costruito in 50 anni di vita e 35 di lavoro è sfumato nel nulla. Io e mia moglie siamo dovuti ripartire da capo. Però non ci hanno avuto, non siamo caduti nella passerella dell’info-spettacolo».
Gianfranco, risposta secca senza pensarci. Crede ancora nella giustizia? «Certo. I giudici hanno detto tutti la stessa cosa: non che il reato non c’è, ma non c’è il fatto».
Per tutti però lei è stato il presunto “orco”. Perché?
«È il sonno della ragione, la caccia alle streghe. L’accusa di pedofilia va molto di moda in questi anni...».
Qualcuno avrà responsabilità.
«Se io, da autore tv, mandassi in onda una castroneria verrei licenziato. Se lei scrivesse una castroneria perderebbe il lavoro. Beh, qualcuno si dovrebbe domandare quante castronerie ha commesso in questa vicenda e poi...».
Poi?
«Dovrebbe prendersi le proprie responsabilità. A Outreau, in Francia, c’è stato un caso analogo di isteria collettiva. Sa che ha fatto il magistrato? Si è presentato in tv e ha chiesto scusa per aver sbagliato».
Lei presenterà un conto?
«Non so se lo farò. Anche se ho perso molti soldi».
Quanto?
«Prima ero in una situazione di solidità economica, ora sono in una situazione di disagio. Ho dovuto vendere la casa di Rignano. L’unico risarcimento che chiederò, però, è quello morale».
L’ha quantificato?
«Non lo voglio in euro. Mi basterebbe sapere che in una società civile come la nostra non esistano più storie di falsi abusi. E che alcune associazioni smettano di sparare nel mucchio in nome della lotta alla pedofilia. Noi di Rignano siamo la punta di un iceberg. C’è gente che ci ha lasciato le penne in carcere, c’è chi è ancora in galera da innocente».
Lei ha mai avuto istinti suicidi?
«Se li ho evitati è stato per merito dei miei figli cui ho sempre pensato che volevamo restituire la dignità del cognome. Poi per gli avvocati dello studio Coppi: fantastici professionisti, ma soprattutto persone speciali».
Gianfranco, sono passati otto anni. Chiuda gli occhi e si lasci andare. Che flash le sono rimasti di questa vicenda?
«Venti carabinieri che una mattina all’ora di colazione suonano alla porta. Mio figlio apre la porta finestra vicino all’entrata e si ritrova un mitra puntato: “Lei stia fermo”».
Il carcere.
«Arrivo a Rebibbia e mi si fa incontro un secondino: “Prego, si accomodi, le ho preparato la suite...”».
I 17 giorni di cella.
«Un piatto di presunte lenticchie e pane incelofanato. Con la mollica faccio piccole torri che diventano i miei familiari più cari».
L’odore del carcere?
«Acari, polvere».
Colori?
«Arancione sbiadito degli armadietti e il marrone delle coperte».
Ha subìto violenze fisiche o psicologiche?
«C’è stato un accanimento sul corpo di mia moglie: le hanno mappato i nei dei seni per verificare i racconti dei bambini. E ha subìto una visita ginecologica dopo che gli avvocati avevano detto di non farla. Cosa cercavano nell’utero di una donna in galera da 16 giorni? Qualcuno me lo deve spiegare».
Gianfranco, ultima domanda. Se un giorno incontrasse una delle mamme che l’hanno accusata cosa le direbbe?
«Una frase che prendo in prestito da mia moglie: “Dei figli bisogna occuparsi, non preoccuparsi”».