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 2014  luglio 30 Mercoledì calendario

I MANICOMI CRIMINALI IN ITALIA NON HANNO MAI CHIUSO, HANNO SOLO CAMBIATO NOME

In Italia non ci sono più i manicomi, sono stati aboliti con la legge Basaglia, la numero 180 del 1978. La "gestione" penale della follia è oggi affidata agli ospedali psichiatrici giudiziari, comunemente chiamati Opg. Ne esistono sei: Montelupo Fiorentino, Aversa, Napoli, Reggio Emilia, Barcellona Pozzo di Gotto, Castiglione di Stiviere—l’unico a presenza anche femminile. Al 13 dicembre 2013, gli "ospiti" di queste strutture erano 1.051. Oggi sono circa 900, di cui 800 uomini e una novantina di donne.
In teoria si dovrebbe trattare di luoghi finalizzati alla reclusione e al recupero di persone che hanno commesso reati, ma che sono inadatte alla pena detentiva perché affette da malattie psichiatriche. In pratica sono dei veri e propri manicomi, zone franche dove la legge Basaglia non è arrivata neanche lontanamente.
L’ultima volta che gli Opg sono saliti agli onori delle cronache è stato quando, lo scorso gennaio, se ne era prospettata la permanenza di Kabobo, il ghanese che ha ammazzato tre persone a colpi di piccone a Milano perché "sentiva delle voci." La possibilità—poi ribaltata dal tribunale—aveva scatenato le ire della Lega Nord, che si era presentata alla Camera con cartelli che recitavano: "Kabobo galera a vita." Alla protesta si era unito anche Fratelli d’Italia, e il consigliere comunale milanese Riccardo De Corato aveva sentenziato: “In Italia chi ammazza tre persone va in ospedale invece che in prigione.”
In realtà, gli Opg sono molto più che una prigione. Sono strutture che riescono a coniugare gli aspetti peggiori del carcere e del manicomio, luoghi insieme di reclusione e cancellazione dell’individuo. E non ci finisce certo solo chi ammazza la gente a picconate. La maggior parte degli "ospiti" sono dentro per reati come resistenza a pubblico ufficiale. Non solo: una volta finiti in un Opg, c’è il serio rischio di non uscirne più.
“Il motivo principale di reclusione è quello classico: il proscioglimento in sede di processo perché il giudice non ritiene la persona capace di intendere e di volere ma comunque socialmente pericolosa. Poi ci sono i casi di chi ci finisce in osservazione perché durante la permanenza in carcere è intervenuta una malattia mentale, o per una misura provvisoria, perché il giudice sospetta un disagio psichico,” spiega Stefano Cecconi, portavoce del comitato StopOpg. “Il problema reale, però, è che spesso dall’Opg non si esce. In teoria la misura del ricovero ha una durata di due, cinque o dieci anni, a seconda del reato commesso. Spesso però il giudice proroga la durata perché non c’è un progetto alternativo”.
Del sistema degli "ergastoli bianchi" mi parla anche Dario Stefano Dell’Aquila, che fa parte dell’associazione Antigone: “Chi entra nel circuito penale è un sofferente psichico che in genere non è mai stato preso in carico da servizi di salute mentale o viene da contesti familiari fragili. Una volta commesso un reato, entra in Opg con una misura di sicurezza di due anni. Poi, se non esiste una famiglia, non ha un lavoro, non c’è una Asl che se ne prende carico, si va di proroga in proroga e non esce più, anche se ha commesso reati minori. Il 40 percento degli internati ha commesso reati non contro la persona. Un ragazzo è entrato perché ha forzato un distributore automatico di sigarette.”
Su questo punto però è intervenuta la legge 81 del 2014 che ha stabilito che il massimo della durata della reclusione in Opg non potrà superare quello della pena detentiva prevista per il reato corrispondente. “Bisognerà però vedere come sarà applicata questa norma,” avverte Dell’Aquila. “I reati prevedono un massimale di pena. Se, ad esempio, il furto prevede da due a sette anni, cosa significa, che potrai stare in Opg per sette anni? È il sistema delle misure di sicurezza che non va bene, il fatto che sia ammissibile la proroga di una sanzione genera mostri. Non c’è certezza, è un meccanismo da regime autoritario”.
Di tutt’altro avviso la Lega Nord, che vede nelle limitazioni alla proroga la concreta possibilità che “finiranno in libertà centinaia di nuovi Kabobo.”
Già nel 1982 una sentenza della Corte Costituzionale aveva stabilito che la pericolosità sociale “non può essere definita una volta per tutte, come se fosse un attributo naturale di quella persona e di quella malattia.” Deve essere “messa in relazione ai contesti, alla presenza di opportunità di cure e di emancipazione relative alla disponibilità di risorse e di servizi” e “vista come una condizione transitoria.” Di conseguenza, “anche le misure di sicurezza vanno di volta in volta riviste e aggiornate”. Più recentemente—nel 2003 e nel 2004—altre due sentenze hanno dichiarato incostituzionale la non applicazione di misure alternative all’internamento in Opg per “assicurare adeguate cure all’infermo di mente e a far fronte alla sua pericolosità sociale.”
Nel 2011 una commissione parlamentare d’inchiesta, presieduta dall’allora senatore Ignazio Marino, ha fatto luce sullo stato di degrado e totale abbandono degli internati in strutture definite “inconcepibili.” Quello che è emerso dai lavori è che in Italia la stagione dei manicomi criminali non è mai finita. Tra sporcizia, muri cadenti, condizioni disumane, assenza di cure o medicinali solo “contenitivi,” scarsa presenza dei medici e spazi personali più che ridotti, hanno veramente poco del luogo di assistenza sanitaria e somigliano più a prigioni.
Durante tutto il 2010 la commissione ha effettuato dei sopralluoghi a sorpresa in queste strutture, rilevando come “le modalità di attuazione osservate negli Opg lascino intravedere pratiche cliniche inadeguate e, in alcuni casi, lesive della dignità della persona.” In pratica, si tratta di vere e proprie discariche sociali che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano non ha esitato a definire “estremo orrore, inconcepibile in qualsiasi Paese appena appena civile.”
“Dopo la commissione c’è stato da parte delle Asl un maggiore sforzo per prendere in carico quei pazienti che potevano essere dimessi già da tempo, ma per i quali non erano stati attivati i percorsi,” afferma Dell’Aquila. “Spesso l’essere definito socialmente pericoloso ai fini della proroga era dato dal fatto che una volta uscito non avevi dove andare. Dopo le denunce di Marino c’è stata una piccola riduzione del numero degli internati. È anche vero, però, che le cifre sono diminuite perché si stanno aprendo sezioni psichiatriche nelle carceri, quindi una parte di quelle persone finisce nel sistema penitenziario ordinario. Con tutto quel che ne consegue.”
Dai sopralluoghi effettuati per conto della commissione, il regista Francesco Cordio ha realizzato un film, Lo Stato della follia, che documenta la condizione dei sei Opg italiani e dimostra come “queste istituzioni siano rimaste sostanzialmente estranee e impermeabili alla cultura psichiatrica riformata, e il meccanismo di internamento non sia stato influenzato dalla legge 180.”
Le immagini girate da Cordio negli ospedali psichiatrici giudiziari si intrecciano al racconto di un attore, Luigi Rigoni, che in un Opg ha passato 25 anni per aver aggredito la moglie e la figlia ubriaco: “Ero definito ’provvisorio’, ma non sapevo che significasse un quarto di secolo.” Nel film, la "folle" condizione di queste strutture viene perfettamente descritta da una frase pronunciata da uno degli ospiti: “Qui ti uccidono piano piano.”
In seguito ai lavori della commissione d’inchiesta, è stata approvata una legge che prevedeva la chiusura degli Opg nel 2013. Il termine, però, è stato prorogato al 2014. E poi ancora al 2015. L’ultima proroga ha apportato delle novità, tra cui l’adozione di misure alternative e i già citati limiti alla durata massima dell’internamento. “La nuova legge ha sicuramente portato dei miglioramenti, come la necessaria creazione di percorsi alternativi o la dimissione delle persone attualmente internate. È stato previsto l’obbligo per le regioni di presentare un progetto ’di uscita’ entro il 15 luglio al ministero della Salute, è un procedimento che stiamo monitorando,” dice Cecconi.
Il problema, però, è che la normativa sembra forse troppo avanzata per lo stato disastroso dei servizi sociali italiani. “Secondo il principio del diritto alla salute,” spiega Cecconi, “il giudice quando deve decidere se internare o meno una persona in un Opg dovrà ora privilegiare misure alternative. Lo si obbliga quindi a rapportarsi con i servizi sociali del territorio. Ma come si fa quando questi non sono adeguati o non riescono a definire un percorso di cura? Se molli una persona per strada così com’è rischia di essere un disastro per tutti: per il malato e per la comunità. In questa direzione dovrebbero finire soldi e risorse che lo Stato investe nella chiusura degli Opg, nei servizi di salute mentale. Non nella costruzione delle Rems.”
Le Rems—residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria—sono le strutture, di competenza delle regioni e che saranno date in gestione a un privato, che sorgeranno al posto degli Opg e per la cui costruzione serviranno diversi milioni di euro. Per chi, come Cecconi, parla già di "mini Opg" saremmo di fronte a uno spreco di denaro: “Che senso ha buttare fondi pubblici per fare strutture manicomiali quando vogliamo superarle? La risposta alla malattia mentale è il territorio, la prossimità, non l’emarginazione e la chiusura. C’è il pericolo di un potenziale contenitore per tutte le situazioni ’pericolose’, un’altra mazzata per la legge 180.”
Per il resto, è difficile capire quale sia la reale differenza tra Opg e Rems. “Al momento l’unica diversità è che le Rems dovrebbero, almeno in teoria, assicurare standard di vivibilità più alti e in qualche modo la riduzione del numero degli internati,” dice Dell’Aquila. “Purtroppo però il manicomio è dato dalla logica che ne determina la nascita: se le strutture nascono solo per contenere finiscono per essere dei manicomi.”
Le Rems, tra l’altro, saranno strutture in cui sarà prevista una retta che le regioni pagheranno al gestore privato. “Che interesse dovrebbe avere a farti uscire? L’interesse è fare profitto su di te, sei l’oggetto, non il soggetto. Tra l’altro è difficile che per marzo 2015 sia tutto pronto. A guardare il piano dell’avanzamento dei lavori delle regioni sembriamo molto indietro. Non escludo una nuova proroga,” prosegue Dell’Aquila.
Almeno per un altro anno, quindi, gli Opg continueranno a funzionare, in condizioni ambientali più decenti di quelle riscontrate dalla commissione Marino, ma non certo esaltanti. “Continua la totale assenza di qualunque capacità terapeutica degli Opg. Ci sono ancora centinaia di pazienti negli Opg e uno standard di rapporto medici-internati bassissimo. Chi è rinchiuso non ha un trattamento, viene solo contenuto. Non è un caso che continuino gli episodi di suicidio,” spiega Dell’Aquila. “Se si commette un reato è giusto che si paghi. Ma tutto il nostro sistema welfare e sanitario si sta molto spostando dai principi della riforma Basaglia, fondata su servizi territoriali e libertà del paziente. Una persona è fatta di tre elementi: spazio, tempo e libertà. La privazione di uno di questi ha ricadute su un soggetto normale, figurati su un malato.”
C’è un problema di degrado che non riguarda—o per lo meno non solo—gli ambienti e le condizioni, ma il fatto stesso che gli Opg siano inadatti a un percorso di cura. Il disagio mentale non è certo una questione semplice da affrontare. Il modo migliore, però, non sarà sicuramente chiuderci alle spalle l’ennesimo cancello.