Diego Gabutti, ItaliaOggi 31/7/2014, 31 luglio 2014
ORWELL CAPÌ CHE LE RIVOLUZIONI SOCIALISTE FACEVANO DEL PRIVILEGIO LA LORO STELLA POLARE E DEL POTERE ARBITRARIO LA LORO RAGION D’ESSERE
Nato all’alba del secolo, quando il socialismo era la speranza dell’umanità e le furie del capitalismo sembravano promettere ai popoli una generale rovina, George Orwell fu per tutta la vita, senza perplessità, corpo e anima, un fervente sovversivo. Se dapprima si propose d’abolire, nel nome del divenire, «lo stato di cose presente», una volta aperti gli occhi si votò piuttosto a impedire che il divenire facesse piazza pulita di tutto, non soltanto del presente e del futuro ma persino del passato, minacciato dalle riscritture della storia operate delle Enciclopedie sovietiche e dalle pseudoscienze razziali, che a loro volta si proponevano di passare al bucato la storia universale. Per questo esattamente settant’anni fa, nel 1944, scrisse La fattoria degli animali. Era una parola d’allarme.
Convinto che politica e utopia coincidessero, come nei teoremi e nelle esatte iperboli della letteratura rivoluzionaria, egli rimase fedele all’utopia fino in fondo, anche dopo aver visto le streghe del Ventesimo secolo. Ma proprio da questa visione, che presto avrebbe condiviso con milioni di lettori di tutte le nazioni, il futuro autore di 1984 fu trasformato, come da un’esperienza mistica: l’utopia, per incantesimo, si era trasformata nel suo contrario, l’antiutopia. Era cambiata la prospettiva utopica. Non più il mondo come dovrebbe essere ma il mondo com’è: nudo, crudo, senza fronzoli e infallibilmente diretto verso la catastrofe. Cambiata di segno, l’utopia rimase una finestra spalancata sul futuro dell’umanità: prima una speranza da coltivare, adesso una sventura da evitare o, peggio, una piaga da curare.
Fu nel maggio del 1937, a Barcellona, nella Spagna della guerra civile, quando le milizie staliniste aprirono la stagione di caccia contro anarchici e trotzkisti, che Orwell scoprì di che materia sono fatti i sogni delle rivoluzioni radicali. Si trovò a fissare la faccia nascosta della luna: un paesaggio infernale, di cui le sirene della letteratura rivoluzionaria non avevano mai fatto parola quando elencavano prodigi come Omero enumerava le navi. Tremò all’idea di che cosa sarebbe stato del mondo se Stalin, Hitler o (peggio) entrambi, avessero vinto la partita, riducendo masse immense al totale asservimento, come le fanciulle trasformate in automi erotici dalle fantasie del Marchese De Sade. Diversamente dagli altri utopisti, che dalle infinite disgrazie del mondo deducono il loro imprudente happy end, dopo Barcellona, Orwell si trasformò in profeta di sventure.
Tornato in Inghilterra, dopo essere scampato per un pelo al fuoco d’artiglieria fascista e al plotone d’esecuzione bolscevico, l’ex soldato rivoluzionario delle Brigate internazionali scrisse Omaggio alla Catalogna, un libro straordinario sulle giornate che decisero il destino, non della sola rivoluzione socialista ma anche del mondo, visto che la guerra civile spagnola anticipò, insieme agli scenari e alle alleanze della seconda guerra mondiale, anche le forme della guerra fredda a venire. Ernest Hemingway e André Malraux, che alla guerra civile spagnola dedicarono opere poderose ma sostanzialmente frivole, semplicemente non capirono quali uova fatali (per dirla con Bulgakov) si stessero schiudendo nel laboratorio spagnolo. Affascinati dal folklore rivoluzionario, incapaci di resistere alle sirene del romanticismo politico, fecero della guerra civile spagnola una cartolina illustrata, che poi spedirono ai loro lettori dopo averla firmata con un elegante svolazzo. Invece l’Orwell di Omaggio alla Catalogna, come un Dante e un Doré fusi insieme, illustrò e raccontò, in prima persona, l’inferno delle ideologie salvifiche e del loro amico invisibile: la volontà di potenza. Fu in Spagna, secondo Orwell, che la rivoluzione socialista perse definitivamente la sua innocenza.
Nella Fattoria degli animali Orwell ridusse a parabola la favola bella, ma bugiarda, della rivoluzione d’ottobre (e di quel che ne seguì, dallo sterminio dei kulaki ai processi di Mosca). Prima che Milovan Gilas denunciasse i privilegi della «nuova classe», quando Trotzky non era stato ancora assassinato da un sicario di Stalin e gli restava dunque abbastanza fiato per questionare con l’ex seguace americano James Burnham a proposito della «rivoluzione dei tecnici» e della trasformazione del capitalismo da avventura individuale dei grandi imprenditori a dominio anonimo del manageriato, Orwell spiegò quale fosse, tirate tutte le somme, la morale della favola comunista: «Tutti gli animali sono eguali, ma alcuni sono più eguali degli altri».
Aveva capito che le rivoluzioni socialiste, la cui vanità è quella d’abolire ogni privilegio trasformando il dominio sugli uomini in amministrazione delle cose, facevano del privilegio la loro stella polare e del potere arbitrario che ne derivava la loro sola ragion d’essere. Diede, a questa intuizione, una forma definitiva: i maiali di Orwell entrarono di prepotenza nel linguaggio comune, quali icone universali della condizione umana, come prima di loro era riuscito soltanto al lupo e all’agnello. Con 1984, qualche anno dopo, Orwell passò dalla favola all’oroscopo storico e sociologico, la triste scienza di chi la sa lunga e vede lontano. Descrisse un mondo completamente dominato dal sistema di menzogne e di terrificanti eufemismi del Grande Fratello, incarnazione di un’altra icona universale: l’apocalisse calzata e vestita.
È vero che dal 1984 siamo usciti indenni e anche il Grande Fratello, che avrebbe dovuto mettere a ferro e fuoco le forme stesse della convivenza umana, non ha prodotto alla fine che un mediocre reality show. Comunismo e socialnazionalismo, a parte i loro ultimi fuochi qua e là, sono stati ridotti all’impotenza. Ma una profezia è una profezia anche quando non si realizza. Orwell, alla fine della sua vita, aveva maturato un’ostilità assoluta e preconcetta nei confronti di qualsiasi progetto positivo e propositivo di riforma del mondo. Aveva scoperto, come Th. W. Adorno e altri filosofi in quegli stessi anni, la forza del negativo, cioè il segreto stesso di tutte le profezie, che non devono necessariamente avverarsi per essere efficaci, ma che sono efficaci quando mettono in luce il lato oscuro del divenire per impedire che s’avveri.
Diego Gabutti, ItaliaOggi 31/7/2014