Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  luglio 31 Giovedì calendario

NORD-SUD, QUELLE STRADE CHE NON SI UNISCONO MAI

Abbiamo mantenuto la parola! Avevamo promesso la riapertura al traffico della strada cilentana e così è stato. Fino all’8 settembre la strada sarà aperta a turisti e residenti ogni week-end”. Sembrano cronache marziane e invece la inconsapevole sintesi della disfatta, della deriva a cui il Mezzogiorno è abbandonato, si ritrova nella dichiarazione dell’assessore ai Lavori pubblici della provincia di Salerno: “C’è una frana in atto, il viadotto che collega Agropoli a Sapri sprofonda ogni giorno di tre centimetri però abbiamo fatto le prove di carico: la strada regge a condizione che si vada avanti a corsia unica”.
Nella settimana in cui Matteo Renzi inaugura l’autostrada che raddoppia il collegamento tra Brescia e Milano, la cosiddetta Brebemi, mille chilometri più a sud non solo non si inaugura più nulla da un bel pezzo, ma non si ripara più nulla. Si osserva la ruggine corrodere, il cemento sfarinarsi sotto il peso dell’asfalto tumefatto dall’età e dai dissesti.
CILENTO, LA VIA VERSO IL MARE APERTA SOLO NEL WEEK-END
Non ci sono soldi né per le grandi opere né per le piccole. Mancano perfino i fondi per le riparazioni urgenti cosicché una strada vitale che collega il mare del Cilento all’Italia resta chiusa cinque giorni alla settimana. Apre il venerdì sera come fosse un night club. Ed è un gesto di cortesia soprattutto per i vacanzieri. Chiude all’una del lunedì, perché i residenti, abituati alla fatica e alla resistenza, potranno servirsi delle mulattiere, e percorrere dieci chilometri in mezz’ora. Incolonnarsi e attendere il nuovo giorno. Pensate se per raggiungere Rimini bisognasse deviare e salire a San Marino, o se Jesolo fosse raggiungibile solo a giorni alterni. Pensate alle proteste, alle urla, alle interrogazioni parlamentari, ai servizi televisivi. E al dramma dei commercianti, agli appelli, alle chilometriche polemiche che ne seguirebbero. Qui niente, il sud è praticamente scomparso dai radar e non c’è pericolo che accada qualcosa. Nulla.
Piove dappertutto, ma qui a franare, insieme all’economia, è tutta la società, è la civiltà di un popolo, la sua stessa dignità. Cosa resta della dignità? “Siamo niente, di noi si parla solo se ci sono fatti di sangue, se c’è l’inchino al boss, il politico arrestato, la faida nel paesino. Non esistiamo se non nel pregiudizio. Tutti ndranghetisti, o collusi, o nullafacenti oppure, ma siamo già nella considerazione alta, persone che vivono dell’elemosina di Stato, con quel che resta dei sussidi pubblici. L’opinione è questa”. Alessandro Russo ha scritto Marchiati (edizioni Sabbia Rossa) con la rabbia del passeggero che si ritrova all’aeroporto nella lista degli overbooking, di coloro che sono in lista d’attesa. Non ha diritto di cittadinanza, non ha titolo a parlare, protestare. Ha perso i diritti civili. Può aspirare a emigrare però...
Nel decreto “sblocca Italia”, la misura che dovrebbe iniettare grandi opere nelle vene di un territorio esausto si apre con la ferrovia Napoli-Bari, che è il punto più vicino (circa 150 chilometri a nord) a questi luoghi. Poi c’è l’autostrada tirrenica, quindi il completamento del quadrilatero statale Marche Umbria, poi il passante ferroviario di Torino, le opere collegate all’Expo, l’alta velocità Brescia-Padova, l’asse viario Lecco-Bergamo, la ferrovia Firenze-Pistoia-Lucca, il sistema idrico abruzzese. Tutto di là. Sono due Italie e ora è persino ufficiale. Qui restano, a imperitura testimonianza, i lavori in corso dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria che da un decennio avanzano a passo di lumaca. È l’unica grande opera che ogni anno attende di essere completata e a dicembre, puntuale, arriva la proroga. Adesso l’attesa è per il 2015!
Pisciotta è una perla del Tirreno, un luogo d’incanto che apre le porte a Palinuro. Negli anni 80 era il punto d’approdo di una clientela europea, il club Med aveva scoperto queste spiagge e trasportato migliaia di turisti. Negli anni l’economia si era sviluppata, tutto il Cilento è divenuto nel frattempo parco nazionale. Poi l’incessante retromarcia. La crisi è più nera del solito perché questo declino appare un abbandono, una dimenticanza finale e definitiva. Nel 2001, ben tredici anni fa, una frana isola la comunità. Il sindaco Ettore Liguori illustra le tappe della nullafacenza: “Otto anni per appaltare i lavori, alla fine ci si accorge che mancano le valutazioni di impatto ambientale. E tutto rimane com’è”. Tredici anni senza una strada. Negli anni scorsi si poteva rischiare e affrontare la frana a passo lento ma alla guida di un’auto. Oggi non più. Da Ascea, il comune più vicino, la sede della scuola eleatica, il luogo dove vissero Parmenide e Zenone, si può raggiungere Pisciotta con i piedi. È un disperato ritorno all’antico. “È una disgrazia – dice Pietro D’Angiolillo, il sindaco – e insieme una vergogna. Trent’anni che se ne parla, e intanto tutto cede, tutto chiude”.
È domenica e sono fortunato. La provincia di Salerno, istituzione oramai ridotta a un detrito della Repubblica, è riuscita a garantire i turni di vigilanza per la strada che scricchiola, l’unica rete che connette queste terre ai grandi assi viari, solo per tre giorni alla settimana. Essendo terminati anche i fondi per gli straordinari del corpo della polizia provinciale, la strada periclitante non può essere sorvegliata sempre. Quindi sta chiusa durante i giorni lavorativi. La ferrovia, a binario unico, è lì lì dal perire anch’essa. Se continuano le piogge le frane avanzeranno e quel binario, il fil di ferro che collega il sud al nord del Paese, la Sicilia alla Lombardia, è come un umano in rianimazione. Può farcela ma anche no. È l’ultimo avamposto di Trenitalia, l’unico dove il treno ancora passa con qualche regolarità, essendo stata smantellata la gran parte degli altri binari. Una lunga lista di binari morti nel cimitero del Sud al punto che Vinicio Capossela, figlio di genitori irpini, cura un festival (lo SponzFest) che quest’anno avrà per titolo “Mi sono sognato il treno”.
Se l’ovest del Mezzogiorno, più popolato e ricco, e comunque monitorato, è ridotto in queste condizioni, figurarsi l’est! La trasversale che lega il Tirreno allo Jonio attraverso la grande Lucania si chiama Basentana. È come un’anziana con l’artrite reumatoide. Deformata in più punti e lasciata lì a ingobbirsi. La volle Emilio Colombo, il cittadino di Potenza più illustre e vicino al potere, ma sono decenni che questa strada, la sola che permetta di raggiungere Taranto, lo Jonio e da lì le coste del Salento, non prova il piacere di una ripulita, il senso della propria dignità di strada. Benché non abbia carichi veicolari elevati anche questa bretella consegna alla coda. Interrotta in più punti, sono anni che il semaforo rosso indica l’incolonnamento obbligatorio. Una delle uscite non facoltative, quella di Balvano, è terribile perché prova come l’alito di una generica manutenzione sia fermo agli anni settanta: dal viadotto inferiore si scorgono i ferri arruginiti delle travi del lungo ponte. Per questo motivo la strada si restringe: non ce la farebbe a sopportare pesi normali. Bisogna percorrerla con prudenza, come si guaderebbe un torrente insidioso. La ruggine è lì che aspetta di compiere il proprio lavoro. Il crac è in agguato, ma nessuno ascolta.
E perché poi si dovrebbe ascoltare i lucani, che sono pochi, quando i calabresi hanno una gruviera chiamata Statale 106. Da anni si muore lì, è un dorso di mulo, asfalto interrotto lungo tutto lo Jonio. Hanno scritto libri su quella statale, ma niente. E in Sicilia la strada che da Trapanio giunge a Siracusa, la cosiddetta Occidentale sicula, è tutta buchi. Deviata, frantumata, ingiallita dall’età. Tutto torna. “Siamo stati restituiti agli anni 50 – dice lo storico Piero Bevilacqua – mi trovo a Copanello, una delle spiagge più belle della Calabria. C’è il sole, il mare è cristallino, ma la spiaggia è vuota. È un segno che va oltre la crisi economica, si ritorna ad affollare i posti di mare solo nel week end, esattamente come cinquant’anni fa. È il documento di come il declino del Sud sia divenuto deriva, e la distanza da Roma sia stata trasformata in un abbandono”.
TRA MILANO E BOLOGNA, IL LUOGO GEOGRAFICO DEL POTERE
Confindustria ha appena pubblicato le cifre della disfatta, i danni che il Mezzogiorno ha subito dal 2007 a oggi. 47,7 miliardi di Pil bruciati, quasi 32mila imprese in meno, 600mila posti di lavoro persi, 114 mila persone in cassa integrazione, due giovani su tre disoccupati. Il calo degli investimenti pubblici è stato di 5 miliardi di euro, con un arretramento ai valori del 1996, e lo stato di salute dell’economia meridionale è sceso “al di sotto del minimo registrato nel 2009”. Gli investimenti privati quasi dimezzati, veleggiamo sul 38% in meno.
Il sud è niente. È il titolo di un film di Fabio Mollo, talento di Reggio Calabria, che si è meritato un’ovazione al festival di Toronto, ha fatto il pieno di presenze a quello di Roma, ha ottenuto lo shooting star a Berlino per la giovane protagonista Miriam Karlkvist. “Il titolo è il manifesto della mentalità sconfitta alla quale siamo stati allevati. Volevamo ribaltare questo retaggio con la voglia di cambiamento”. Ci sono le energie, esistono i talenti ma sono dispersi, mai connessi. Non si conoscono né si riconoscono. Il sud è un’industria che fabbrica intelligenze disperate, solitarie, sempre in fuga. Piano piano, poco a poco muoiono tutti i centri vitali e persino la mobilità, come visto, diviene problematica. Nell’era della conoscenza istantanea, di internet che collega e commuta, stringe mondi lontani, qui si ritorna alla mulattiera, si retrocede, si destina una parte della giornata alla coda.
“In tempi di crisi la parte più fragile subisce il declino più vistoso. E il Sud, che già parlava solo con le parole della criminalità alla opinione pubblica, oggi diviene ancora più marginale, trascurato, inesistente”, dice il meridionalista Isaia Sales. Non pesa, non conta e si vede. Con il governo Renzi è stato praticamente cassato il ministero della Coesione territoriale il cui titolare nell’esecutivo precedente, Fabrizio Barca, aveva trovato un modo di pianificare e governare le risorse senza il disordine e le ruberie degli anni della grande abbuffata. Non solo non c’è più Barca a parlare nel governo di Sud, ma è il Parlamento a non trovare rappresentanti utili, credibili, presentabili. Il potere ha residenze lontane da queste terre. Il premier attuale è di Firenze, toscano come il predecessore. Tra Milano e Bologna, tra Berlusconi e Prodi, il luogo geografico del potere in questo ventennio. Come il presidente della Confindustria, e come ogni personalità che abbia relazioni e peso nell’industria pubblica e privata.
Al sud sono rimasti gli ascari, le truppe di complemento, parlamentari in disuso che vivono di rendita. Oppure politici finiti in carcere per le loro opere e omissioni. E al Sud oramai le uniche capatine che si registrano sono quelle di Matteo Salvini, il leghista che fino a qualche tempo fa aveva solo parole razziste e ora vellica la rabbia popolare per l’incessante e insostenibile peso dell’immigrazione clandestina. È il paradosso triste. La porta si chiude e nessuno apre più.
Antonello Caporale, il Fatto Quotidiano 31/7/2014