Paolo Guzzanti, Il Giornale 31/7/2014, 31 luglio 2014
L’ULTIMA NARRAZIONE DI VENDOLA
È un uomo di cui è d’obbligo dire che è intelligente, colto e sensibile. Poi è d’obbligo aggiungere che è un affabulatore. Produce un tipo di favola che lui ha ribattezzato narrazione. La parola narrazione esisteva già con un significato preciso, ma ora è finalmente impreciso.
Un affabulatore, a norma, è un tizio che conta favole sulla piazza e incanta sia i bambini sia gli anziani più malconci a causa del suo piano sanitario, accovacciati intorno al fuoco. Ma è arrivato il momento (anzi siamo in ritardo) di dire che Vendola piace essenzialmente ai cretini, alle persone esentate per motivi vari da ogni parvenza di cultura e che alla fine scelgono il personaggio più banale per il suo finto anticonformismo. Un altro caso, meno crudele, è quello di Obama, uomo intelligente anche se non geniale, votato a furor di popolo, specialmente dagli europei senza diritto di voto, per il solo fatto che è nero. Che ficata un presidente nero. E Obama non è nero, come disse una volta in una souplesse di superficialità Scalfari in tv, perché erede degli schiavi deportati dall’Africa, ma perché rampollo casuale di uno scapestrato studente keniota che mise incinta la bella bionda Ann Dunham, e poco dopo se la squagliò. Di lì un osanna che adesso la stessa sinistra vorrebbe rimangiarsi avendo notato la tendenza del capo della Casa Bianca a usare il suo telecomando non per cambiare canale ma per far fuori ipotetici terroristi con i suoi giocattoli volanti che fanno secco chiunque. Ma per la sinistra, nero è un valore, come lo è gay. Come lo è l’eutanasia come pratica estiva - guarda l’Olanda - per liberarsi del nonno malato prima delle vacanze.
Nel mondo vendoliano essere gay non è infatti una comune condizione umana, ma un valore che autorizza un superomismo che avrebbe fatto rabbrividire Nietzsche. Vendola, pur essendo soltanto pugliese, si è appropriato dell’intero valore politico della battaglia per i diritti civili dei gay. Di lì una divinizzazione. Un orgoglio, un’ammirazione estetica ed estatica per la sua zazzera che slitta sulla fronte. È anche così che Vendola ha costruito su se stesso un prototipo, un muppet, un campione perfetto. E ha pensato che fra narrazione e orecchino, affabulazione e cantico dei cantici suoi, avesse costruito un soggetto politico capace di stare in politica. Ed ecco che - sbam! - la porta gli sbatte sul naso.
E così di colpo in colpo si scopre che Nichi non conta più un piffero, che i suoi lo stanno lasciando in massa ed è, dovete credermi, molto triste.
L’hanno scaricato tutti. Bersani, con cui doveva far coppia ma che l’ha mandato a quel paese. Renzi lo ha preso letteralmente per i fondelli dandogli a bere che una trattativa era già in corso mandando avanti Vannino Chiti perché a lui veniva da ridere, sicché poi è toccato spedire sul luogo della strage l’eliminatore Zanda perché ripulisse la raccapricciante scena della fine di Vendola.
Ed allora l’affabulatore con la zeppola, quello che non sai mai esattamente che cavolo sta dicendo, ma che lo dice in modo così poetico, Nichi del Sel ha intonato un canto vespertino serale per il suo popolo in fuga come quelli delle antiche tribù Navajo quando lasciavano il campo di battaglia.
Vendola probabilmente è un Avventista dell’Ultimo Giorno perché ha creato una composizione plurivocale liberamente ispirata al cantico delle creature in cui si passa dai gufi al bunga-bunga, dai rosiconi a papi, o al papa, o ai papi (va a sapere) e a quello che lui definisce «infinito repertorio da gita liceale». Cioè la sagra delle parolacce sui cessi.
E poi piagne. Piagne come i piagnoni di Savonarola, e invoca la giustizia - se non divina almeno quella umana - lamentando che nel campionario delle crudeltà del mondo alberghi persino la «caricatura delle opposizioni». Roba da auto querela se si pensa che Vendola è specialista nella più spietata caricatura di se stesso. Questi ultimi umori traspaiono in particolare dall’intervista che Nichi ha dato a Repubblica, il cui giornalista gli chiede di venire al dunque: insomma, lei e i suoi, metterete in crisi le giunte sì o no? Lì si vede la superiorità della Magna Grecia pugliese sulla Magna Grecia della Provincia di Avellino. Là dove un intraducibile De Mita si sarebbe soltanto aggrovigliato in una serie di metafisici «raccionamèndi», qui il magno-greco di San Nicola passa al pensiero omerico, senza rinunciare al signore di Lapalisse: «Se è una minaccia è irricevibile, se è un’argomentazione è incomprensibile». Non una chance, una sola, di comprendere. Eppure gli era stato chiesto di rispondere a una banale domanda: sì o no.
Il povero ex guru che crea la narrazione si trova adesso nella posizione del triste pastore, il monocolo Polifemo, che vede dall’alto tutte le sue pecore transumanare dall’aspro mare del Sel verso la comoda maggioranza «c’è-posto-per-tutti» (si danno lezioni di fiorentino con accento di Pontassieve). E lui, proprio come Polifemo, tira macigni a casaccio contro Ulisse, e prepara la prossima narrazione: dalla fuga in massa dei suoi ovini, prevede un nuovo patto Ribbentrop-Molotov, destra-sinistra, e strilla che le forze cieche della reazione in agguato si sono coalizzate contro di lui, contro il suo carisma, l’omosessualità, la zeppola, la narrazione. Sulla narrazione, in special modo, si sente fregato: «E adesso che cosa narriamo?», chiede ai suoi fidi. Ma quelli fuggono trincando un Chianti da bancarella, ma pur sempre Chianti.