Sergio Canciani, Il Messaggero 31/7/2014, 31 luglio 2014
LA SOLITUDINE DI PUTIN LO ZAR TRAVOLTO DAI SUOI SOGNI
LA SOLITUDINE DI PUTIN LO ZAR TRAVOLTO DAI SUOI SOGNI –
Come in un romanzo di Dostojevskij sulla roulette Russia continuano ad uscire i numeri sbagliati. I gettoni si stanno esaurendo e con essi la presunzione di portarsi via il banco. Vladimir Putin si comporta come un giocatore disperato costretto al rilancio per pareggiare la posta. Il Cremlino si sta accorgendo che le sanzioni messe nero su bianco dall’occidente non sono una tigre di carta.
Tra mancate esportazioni di idrocarburi e tagli alle importazioni di beni di consumo il buco di bilancio toccherebbe quest’anno quota 20 miliardi di dollari e il triplo quello prossimo. Una “strogost”, una severità che punisce le principali banche di stato, gli acquisti di tecnologia indispensabile per sviluppare le ricerche di gas e petrolio, i contratti per materiali double face ad uso civile e militare, nonché gli affari multimiliardari degli oligarchi del cosiddetto cerchio magico. Ammesso che americani e soprattutto europei restino fermi nelle loro intenzioni punitive - il che non è scontato - i piani strategici dello zar e il suo sogno epocale di rifondare la Russia quale potenza planetaria andrebbero a fondo e la corte che controlla tutti i gangli del potere non si salverebbe. Dall’interno del Cremlino si registrano voci dissonanti. Una volta si sarebbe parlato di resa dei conti tra ortodossi e deviazionisti, questi ultimi sempre finiti male. A Mosca circola l’immagine di un Putin in preda alla paranoia, diffidente verso tutti e di tutti insofferente.
L’espressione del viso si è fatta più dura, le parole più secche. Ogni frase ha lo stile di un “ukaz”, di un ordine che non si può discutere. Anche i saloni dorati del Cremlino emanano un’atmosfera pesante, piena di ombre. Sulla sottostante piazza Rossa il mausoleo di Lenin pesa come un monito. I suoi marmi sono neri come le ali di un corvo e porpora come il mantello di un imperatore nell’era della decadenza.
La considerazione che ha di sé e del mandato di salvatore della Grande Russia non gli consentono di valutare il mondo che gli sta ad ovest né i valori che esso rappresenta. Democrazia, rispetto della persona umana, stato di diritto. Messaggi non pervenuti nella Russia profonda perennemente ostaggio di ideologie estreme: dallo stalinismo al nazionalismo lamentoso ed aggressivo. Un vecchio libro di Curzio Malaparte, dedicato a reportage dal fronte orientale, s’intitola “Il Volga nasce in Europa”. Bella pensata, ma falsa a meno che non si consideri il grande fiume talmente largo da avvicinare alla Russia non l’Europa ma l’Asia. Ipotesi non irragionevole. La Cina non chiederebbe di meglio, assetata com’è di idrocarburi e minerali siberiani e impegnata nella costruzione di un apparato aero-navale in grado di competere con gli americani nel Pacifico. Il tutto coincide con un ritorno al Grande Freddo tra Mosca e Washigton. Fornendo ai secessionisti del Donbas sistemi di missili capaci di disintegrare un bersaglio a quota 10 mila metri (come nel caso del Boeing malese) i russi avrebbero infranto almeno due trattati. Quello sullo smantellamento degli euromissili firmato da Reagan e Gorbaciov nel 1987 e quello che dalla proclamazione dell’indipendenza dell’Ucraina impegna Russia e America di vigilare sul suo disarmo e sulla sua intangibilità territoriale.
Si puntava ad un’Ucraina neutrale, “finlandizzata”, ora rischia di finire “balcanizzata”. Fin dai tempi di Bismarck la mai tramontata dottrina della real-politik dice che gli stati non hanno ideali ma solo interessi. Visto lo stato delle cose sul campo gli interessi di una nuova Ucraina sono da definire: operazione complicata in una paese diviso e conteso incapace di scegliere una classe politica credibile, non demagogica, non corrotta né velleitaria. Il governo europeista del primo ministro Arsenij Jatseniuk, un brillante economista, è durato lo spazio di un mattino travolto da beghe di palazzo. Nella prospettiva di un negoziato un interlocutore autorevole e rappresentativo a Kiev non c’è. La peggiore storia riemerge come il peggior incubo. Il Donbas non è da meno, anzi. Putin nega di esservi coinvolto, ma non è convincente. I satelliti, le testimonianze, gli informatori infiltrati sul terreno ma soprattutto la logica indicano una mano pesante dei russi. Putin ovviamente nega. Pessima figura, comunque: non accorgersi di avere alle porte di casa una specie di esercito che dice di non poter controllare né influenzare non depone a favore delle sue conclamate virtù di comandante in capo.
Alzare barricate non serve perché il danno è già stato fatto e costerà alla Russia la perdita di molti miliardi e di molti interlocutori. Lo zar ridimensionato appare già come un uomo solo in preda alla sue paranoie. I saloni imperiali del Cremlino, non gli piacciono più, lo inquietano. Preferisce vivere e sbrigare gli affari nella sua dacia di Novo Ogariovo, circondato solo dai suoi fedelissimi e dalla sua labrador nera. Tra i servitori è comparso perfino un assaggiatore di cibi. Dicono che non accadeva dai tempi di Ivan il Terribile.