Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  luglio 31 Giovedì calendario

SE L’INDUSTRIA NON TROVA PIU’ LAVORATORI

Può sembrare un paradosso o una mossa di marketing, ma il mismatching tra domanda e offerta di lavoro è una realtà, nonostante la crisi. «Siamo costretti a chiamare gli stranieri perché gli italiani non li troviamo», lamenta Giuseppe Bono. L’amministratore delegato di Fincantieri, un gruppo di eccellenza con 21 stabilimenti in quattro continenti, leader nel settore cantieristico navale, rincara la dose: «Senza appalti non potremmo trovare saldatori e dunque non potremmo andare avanti».
Intanto, anche se l’automatismo non è perfetto, nel 2013 cresce in Italia l’occupazione degli stranieri (22 mila unità rispetto all’anno precedente, un terzo extra Ue, due terzi dall’Europa), a fronte di una forte riduzione dell’occupazione italiana (-500 mila unità). L’allarme sullo skill shortage è ricco di episodi, sia nelle grandi imprese sia nelle medie e piccole realtà e nei distretti. Le ragioni sono tante e hanno a che fare con aspettative culturali, carenze nella formazione e improvvisazione nell’orientamento. Del resto solo alcune settimane fa e a cavallo dell’anno passato e dell’attuale, le segnalazioni non sono mancate. I consulenti del lavoro, prima, gli artigiani poi, Unioncamere subito dopo hanno lanciato numerosi warning. La mancanza di posti di lavoro si accompagna con la scarsità di numerosi profili professionali. A mancare sono soprattutto figure aziendali di tipo intermedio: progettisti, saldatori, project manager, manutentori, meccanici di precisione, esperti di materiali, tecnici informatici specializzati, esperti di marketing. Tutte figure la cui formazione si trova spesso in scuole professionali tra il diploma e l’università, un’offerta formativa in cui siamo del tutto carenti. La Cgia di Mestre segnala il rischio che restino vacanti 350 mila posti di artigianato, tradizionale e innovativo (gli artigiani digitali), per mancanza di vocazioni: corrispondono all’imminente uscita dal lavoro degli attuali titolari che hanno tra i 60 e i 65 anni. Mancheranno così anche falegnami, tapparellisti, tappezzieri, conduttori di macchine, riparatori, posatori, insieme agli esperti di software, di gestione aziendale e commerciali per l’estero. Le imprese, grandi e piccole, che stanno prendendo i venti della ripresa si trovano spesso di fronte a un muro, a un’impossibilità, aggravata dalla scarsa propensione alla mobilità territoriale sia dei giovani sia degli adulti con esperienza. E’ un circolo vizioso che va fermato. Mentre i giovani sciamano nelle università senza un progetto e sognano di entrare un giorno in una multinazionale in cui fare soldi, viaggi e carriera, la domanda delle imprese resta inevasa, soprattutto quella delle medie e delle piccole imprese innovative, e sempre nelle figure intermedie, a cui basterebbero ottime scuole di alta formazione professionale. E allora, facciamo un patto con i nostri giovani: prendete atto che non è obbligatorio andare all’università, anzi, a volte è autolesionista; e soprattutto chiedete, chiedete, chiedete una formazione post-diploma di qualità, scuole di alta formazione professionale che in Italia sono poche e che possono invece frequentare i vostri colleghi francesi, tedeschi, inglesi. In cambio noi adulti ci impegniamo a realizzare tre progetti. Avviare un programma speciale di formazione degli orientatori professionali per ridurre i rischi del bricolage e del fai da te nelle scelte degli studi. Creare una rete dei servizi al lavoro, pubblici e privati, che accompagnino i giovani e le famiglie nelle strategie di scelta dei percorsi professionali, sapendo che il futuro del lavoro non sarà solo dipendente ma anche intraprendente e autonomo. E vincere la scommessa dell’alternanza scuola-lavoro sulla base del modello duale alla tedesca: sviluppando i contratti di apprendistato sia durante che dopo il diploma, con due terzi di aula e un terzo in azienda (o viceversa); sviluppando l’alternanza dai 15 anni in poi aumentando la percentuale degli stage di durata significativa durante le superiori (oggi interessano meno del 10% dei ragazzi); moltiplicando l’offerta di Its (Istituti tecnici superiori biennali post-diploma), che vengono promossi e realizzati nei territori per rispondere ai fabbisogni espressi dalle imprese.