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 2014  luglio 30 Mercoledì calendario

STAI TRANQUILLA NON IMPORTA

[Intevista a Roberta Bellesini] –

È la prima volta che la vedo senza Giorgio e senza sorriso, anche se si è sforzata per due ore di regalarmene almeno uno. Chi la conosce sa che Roberta era più che «l’altra metà di Faletti»: lo completava, lo accudiva, lo rispettava, lo ascoltava e lo amava in un modo che era subito evidente a tutti. Quando erano insieme la differenza di età sembrava svanire, così come la differenza di altezza – lei lo superava – amalgamati com’erano nella conversazione, quasi sempre davanti a una tavola imbandita dove amavano ricevere e ospitare gli amici.
Oggi però mi sembra fin piccola, seduta sul divano, con un piede che si è slogata proprio alla vigilia dei funerali, scendendo dal letto dopo una notte insonne. Come se la sua vita si fosse azzoppata e ora fosse lei ad avere bisogno di sostegno. E una stampella non può bastarle. Da quando la notizia della morte si è sparsa, l’affetto per fortuna l’ha travolta, e la sua casa è diventata «un porto di mare», come dice lei stessa, costringendosi a volte a non rispondere al citofono per restare un po’ sola.
La incontro proprio a casa di un’amica a Milano, in questi giorni in cui deve risolvere molte questioni burocratiche rimaste in sospeso. Fa di tutto perché sembri un incontro normale – «Ci prendiamo un caffè?» –, ma sappiamo benissimo che Giorgio non farà capolino dalla cucina per dire che la pasta è quasi cotta. E anche se le lacrime ogni tanto interromperanno la conversazione, lei andrà avanti lo stesso, come una guerriera innamorata.

Come fai a essere così forte?
«Avendo vissuto 15 anni di fianco a un attore, ho imparato un po’ a recitare. Al funerale ad Asti, mi sembrava di vedere un film, e non potrò mai dimenticare la folla silenziosa e partecipe all’uscita della chiesa. Però mi riesce bene recitare solo di giorno. Il dramma arriva la notte e la mattina».
E che fai?
«Per lo più piango. Un’amica psicologa mi ha detto di non trattenere niente. Così, una sera sono uscita sul terrazzo e ho rotto un servizio di piatti orrendo, che non piaceva neanche a Giorgio. Mi ha fatto sentire meglio».
Come vi eravate conosciuti?
«A cena da amici comuni, in provincia di Asti. Era il giugno del 2000 e c’era una partita degli Europei di calcio. Io l’avevo già incontrato in precedenza perché era un cliente dello studio di progettazione dove lavoravo. Lì capii il primo tratto del suo carattere: la gentilezza».
Come andò quella sera?
«Ci ritrovammo a parlare di musica, e ci fu subito una certa sintonia. Ma io sono timida e all’epoca avevo 29 anni, per cui a fine serata ci salutammo normalmente».
Quando vi siete rivisti?
«Un po’ di mesi dopo chiamò il mio studio e casualmente risposi io. Mi disse che avrebbe passato del tempo ad Asti e m’invitò per una pizza».
Come fu la pizza?
«In realtà fu una cena molto carina a Costigliole d’Asti. Ero un po’ agitata perché pensavo di non aver argomenti di conversazione per via della differenza di età. Invece fu tutto facile, poi io sono sempre sembrata più adulta e lui più bambino, per cui la distanza era minore. Però ci vollero altre cene prima che ci baciassimo, finalmente, a casa sua. E dopo un po’ mi chiese di andare a vivere da lui a Milano».
Che tipo era, in casa, Giorgio?
«Ha sempre adorato cucinare. La sua genialità la esprimeva anche lì, ed essendo io buona forchetta gli fornivo diversi stimoli. Sono molto legata al suo pollo con pesto e latte di cocco, e alla passata di ceci con gamberi che gli aveva insegnato Pierangelini».
Poi un giorno l’hai ritrovato disteso in camera per via dell’ictus.
«Sì, era il giorno in cui avrebbe dovuto fare la sua prima presentazione di Io uccido alla Mondadori di via Marghera. Per fortuna ebbi la lucidità di descrivere bene i sintomi al pronto soccorso, per cui lo portarono al Niguarda. Poco dopo, però, dovetti prendere la decisione più difficile della mia vita».
Cioè?
«C’era un farmaco che poteva sbloccare la situazione, ma in Italia era ancora in via sperimentale. E, non sapendo bene da quanto tempo Giorgio era in coma, avrebbe potuto essere letale. Più il tempo passava, più aumentava il rischio. Il medico mi lasciò dieci minuti per decidere, e io rischiai. Ho sempre pensato che per avere risultati si debbano correre rischi».
Come reagì Giorgio quando lo seppe?
«Mi chiese di sposarlo. Parallelamente, la sua guarigione venne accelerata dai risultati clamorosi delle vendite di Io uccido».
L’ictus aiutò le vendite?
«Forse i primi giorni. In Italia quando c’è un dramma si svegliano tutti… Ma non vendi cinque milioni di copie se non arrivi al cuore dei lettori».
Come fu il vostro matrimonio?
«Come lo volevamo: bello e semplice, a Capoliveri, Isola d’Elba. Invitammo solo gli amici più cari. Io avevo un abito di seta blu elettrico, Giorgio un completo di lino nero. Poi tutti a mangiare da Pilade, che aprì per pranzo solo per noi».
Avete mai pensato di avere figli?
«A me sarebbe piaciuto, soprattutto all’inizio. Giorgio invece non si riteneva abbastanza adulto per occuparsi di persone che dovevano dipendere così tanto da lui. Non era un discorso egoistico, anche se può sembrarlo, ed è stato molto onesto a dirmelo apertamente».
Che cos’era la casa di Capoliveri per lui?
«Il posto più bello del mondo. Abbiamo visto tanti tramonti nei nostri viaggi, ma per Giorgio niente batteva Capoliveri. Quella casa è un luogo magico, la vedi una volta e ti entra nel cuore. Lì lui amava scrivere romanzi, comporre canzoni, dipingere».
Com’era durante la fase creativa?
«Aveva il modo di creare dei geni, e non lo dico perché era mio marito. Era quotidianamente attraversato dalla realtà, senza filtri. Pezzi di vita che restavano imbrigliati nella sua testa e li trasformava attraverso la sua immaginazione. In quei momenti entrava in catalessi. A volte gli dovevo chiedere qualcosa di urgente, lui mi fissava e non mi vedeva. E poi non si rendeva conto della bellezza delle sue cose. Non ne era consapevole».
Il mondo letterario però non l’ha mai apprezzato veramente.
«Infatti ne soffriva. Lui faceva comodo agli editori e ai festival, perché portava pubblico e faceva vendere tante copie. Però gli intellettuali non lo hanno mai veramente accettato. Forse ha avuto più riconoscimenti dalla musica. De Gregori gli dedicò un bellissimo tributo, e la sua amicizia lo gratificò molto».
Credi che tornerai a Capoliveri?
«Sì, ad agosto, con un’amica e i suoi figli. Suo marito è morto d’infarto a 63 anni la stessa settimana in cui hanno diagnosticato il tumore a Giorgio. Una coincidenza che, se la metti in un film, pensi che lo sceneggiatore si sia fumato una canna».
Quando ha scoperto di avere un tumore?
«A gennaio, per caso. Doveva fare una risonanza magnetica perché aveva un’ernia da controllare, e da un po’ aveva un fastidioso mal di schiena. Una sera a Roma conosciamo un radiologo, e il giorno dopo gli fa fare gli esami nella sua clinica. Purtroppo non c’era solo un’ernia».
Qual è stata la tua reazione?
«Ho detto solo: “Cazzo”. Poi ci siamo presi qualche giorno per decidere che cosa fare, io e lui. Ci hanno consigliato un medico di Los Angeles che lavorava con le eccellenze di tutto il mondo, lo abbiamo incontrato a Losanna e abbiamo deciso di provarci. Ma la nostra decisione di curarci in America era dettata soprattutto dalla necessità di avere un po’ di privacy. Chiunque avesse visto Giorgio entrare in un centro di chemioterapia avrebbe capito che non aveva solo mal di schiena».
A quante persone l’avete detto?
«Pochissime. Ce la siamo vissuta io e lui. Il primo mese siamo stati a Newport, poi abbiamo preso una casa a Santa Monica. Volevamo un posto dove stare tranquilli durante i cicli di chemio. Abbiamo trascorso molti momenti belli insieme, perché lui reagiva bene alle cure e il male sembrava ridursi. Certo era un po’ affaticato, però non ha mai avuto l’atteggiamento del malato né della vittima. Mai».
Quando è precipitata la situazione?
«Nell’ultimo mese. Ha iniziato a non sentirsi più bene… faticava a camminare… a parlare… hanno fatto diversi esami prima di capire che aveva metastasi al cervello. Era il 20 giugno».
È lì che ha deciso di tornare?
«Lui aveva già deciso di tornare per fare la radioterapia in Italia, ma sono sicura che in cuor suo avesse capito che non c’era più nulla da fare. Desiderava tantissimo tornare in Italia, lo desiderava con tutto se stesso. Tant’è che ha tenuto duro fino a che siamo arrivati qui. Poi ha mollato. Vorrei però che tutti sapessero che non ha mai avuto un momento di rabbia o di sconforto. Mi diceva: “Comunque vadano le cose, io ho avuto una vita che altri avrebbero bisogno di tre per provare le stesse emozioni. E se penso che sarei dovuto morire nel 2002 e in questi 12 anni ho fatto le cose a cui tenevo di più, devo ritenermi l’uomo più fortunato del mondo”».
Credeva in Dio?
«Non era religioso, però in fondo un po’ sperava che la vita non finisse. Come canta nell’Assurdo mestiere, quando chiede a Dio: “Mentre decidi se son buon o son cattivo, fa che la morte mi trovi vivo. E se questo avverrà, io ti prometto che mille e mille volte ti avrò benedetto”».
Qual è il suo libro a cui sei più legata?
«Fuori da un evidente destino, perché l’ho visto nascere. Sono stata al suo fianco per tre mesi in Arizona, Utah, New Mexico per fare ricerche. Bellissimo».
Il tuo ultimo ricordo?
«Gli ultimi giorni in America Giorgio non riusciva più a parlare e faceva fatica a deglutire. Io ero un po’ cieca, nel senso che non mi volevo rendere conto della situazione, quindi mi ostinavo a cucinare otto ore al giorno per inventarmi cose che gli stimolassero l’appetito. Avevo preparato un passato di zucchine, e lui dopo due cucchiai si arrese. Io avevo quasi le lacrime agli occhi per la rabbia, perché non volevo ancora arrendermi. Lui mi accarezzò il viso e fece un’espressione come per dire: “Stai tranquilla, non importa”».