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 2014  luglio 31 Giovedì calendario

CALDAROLA: «SERVE UNA TESTATA NUOVA, SENZA CEDERE ALLA RETORICA»

Peppino Caldarola lei è stato direttore de l’Unità...
«Si, per due volte. La prima volta, dopo Veltroni. Poi sono stato direttore dal 1998 fino alla sua chiusura. La chiusura della prima Unità».
Prima Unità ? Che vuole dire?
«Che nel 2000 l’Unità è stata chiusa. E dopo quella data nasce un giornale con tutta un’altra storia. La prima Unità era dentro la storia della sinistra italiana. La seconda invece è radical-liberale e non a caso il primo direttore alla riapertura del giornale è stato Furio Colombo che con la storia della sinistra nulla ha a che vedere».
E adesso? L’Unità chiude per la seconda volta. Cosa pensa?
«Beh proprio per quello che ho detto mi sembra una chiusura molto meno drammatica. Ben inteso: non mi riferisco agli ottanta colleghi che rimangono senza lavoro e ai quali esprimo tutta la mia solidarietà. Ma non per la storia del giornale. Sto sentendo troppa retorica in queste ore: il quotidiano fondato da Antonio Gramsci. Ma cosa c’entra Gramsci con l’Unità che usciva in edicola? La testata ha decisamente concluso la sua storia. È morta».
E dunque?
«Bisogna pensare un altro giornale, con un altro nome. Noi ci pensammo già nell’89, dopo la svolta della Bolognina. Il Partito comunista aveva cambiato nome. E noi volevamo cambiare nome a l’Unità».
Noi chi?
«Renzo Foa, che all’epoca era il direttore, Piero Sansonetti, io e Amato Mattia, l’editore. Chiamammo Piergiorgio Maoloni, un genio della grafica e gli chiedemmo di realizzare un progetto grafico per un nuovo giornale. Fece un progetto fantastico. Avevamo anche un titolo: “Novità”, così che le ultime due lettere del nome nuovo fossero uguali al nome precedente».
Ma poi? Che successe?
«Ad Occhetto non piacque e non se ne fece niente. Del resto noi avevamo agito di testa nostra senza avvisare il partito. Peccato. L’avevamo vista lunga».
E adesso?
«Adesso sarebbe davvero il caso di pensare un nuovo giornale che si porti dietro i lettori che aderiscono ad una sinistra riformista. Non c’è, pensiamoci bene. C’è il dominio della monarchia di Repubblica, ma è un altra cosa. Poi c’è il Fatto Quotidiano che non si può certo dire che sia di sinistra, basterebbe soltanto guardare il vicedirettore Marco Travaglio che di sinistra non è mai stato».
Ma adesso che l’Unità chiude cosa succede secondo lei?
«Se l’Unità muore davvero rimane un vuoto che può essere colmato. Che deve essere colmato. E non soltanto per quei 25 mila lettori che ancora sono rimasti attaccati al giornale. No ce ne sono tanti altri potenziali. Lo spazio è davvero tanto».
Come si potrebbe riempire questo vuoto?
«Ci vuole molta fantasia. Molta abilità a coniugare il giornale di carta con le nuove tecnologie. Ma soprattutto è importante cosa non ci vuole».
Cosa non ci vuole?
«Non ci vuole l’imprenditore amico di Renzi. Ci vuole un imprenditore che abbia voglia di fare l’imprenditore dell’informazione, intendendo per informazione quella fatta di pensieri lunghi. Temo che il nostro presidente del Consiglio oggi sia molto più interessato ai tweet che non alla carta stampata. E non è il solo. Mi sembra che tutto il gruppo dirigente del Pd non sia interessato all’informazione di carta. E io sono molto preoccupato dai pensieri brevi. Una classe dirigente che vuole durare deve avere pensieri lunghi».
Alessandra Arachi