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 2014  luglio 31 Giovedì calendario

OPPOSIZIONI, LO STRAPOTERE IN PARLAMENTO

La lunga paralisi che ha colpito il Senato, chiamato a discutere della riforma di se stesso, ha sollevato critiche e osservazioni tra le più varie, come se appunto quel che sta accadendo da settimane a Palazzo Madama fosse frutto di un’anomalia, o sintomo terminale di una malattia che ha colpito la democrazia italiana. Più difficile, invece, è ammettere che ciò di cui si discute e a cui stiamo assistendo, non solo è perfettamente legittimo, ma corrisponde al dettato della Costituzione del 1948, quella scritta e quella materiale, formatasi durante sessantasei anni. Una Costituzione, va ricordato, che affida alle opposizioni, quali che siano, un potere smisurato; e richiede per ogni decisione un compromesso, un accordo, una condivisione, da sempre sbilanciati a sfavore dei governi e delle loro maggioranze.
La regola, esplicita e assai presente nel dibattito all’Assemblea Costituente, poteva pure avere un fondamento alla nascita della Repubblica, dopo l’abbattimento della dittatura e la tragedia della guerra perduta.
Tra l’altro era logico che, di fronte all’imprevedibile risultato delle prime elezioni democratiche, i partiti che avevano contribuito alla scrittura della Carta, pur restando avversari, cercassero di cautelarsi, conservandosi un forte ruolo nelle Camere e nella vita pubblica anche in caso di sconfitta e di esclusione dal governo.
Sapevano bene, i Padri costituenti, che un indirizzo del genere, fondato sulla prudenza e sull’istinto di autotutela, oltre che sul timore, ancora vivo, del ritorno di un regime, avrebbe dato vita al sistema consociativo che, salvo rare eccezioni, affidava l’equilibrio della Prima Repubblica all’intesa tra i due maggiori partiti, Dc e Pci. Ma certo non potevano immaginare quanto questo avrebbe limitato il raggio d’azione dei governi e delle loro maggioranze: fino a sottometterlo, di fatto, al via libera dell’opposizione.
Per capire le implicazioni di quella scelta, basta fare un piccolo esercizio: mentre è impossibile ricordare a memoria quanti segretari della Dc e dei partiti di maggioranza e quanti presidenti del Consiglio ci sono stati dal 1946 al ’94, l’anno della caduta della Prima Repubblica, è abbastanza facile citare i nomi di Togliatti, Longo e Berlinguer, cioè dei tre leader – nota bene: solo tre, dato che Natta e Occhetto appartengono già all’epoca della crisi –, che regnarono a vita, come papi, e furono chiamati a fronteggiare decine e decine di premier e di esecutivi deboli e condannati a vivacchiare mediamente meno di un anno. La fragilità dei governi, contrapposta alla stabilità degli oppositori, rappresentava l’applicazione puntuale della legge del compromesso. Che si applicava, e in questo consisteva la sua forza, anche nei casi in cui, per ragioni ideologiche, l’opposizione doveva fare realmente l’opposizione fino all’ultimo, e non accordarsi presto o tardi con il governo pro-tempore.
Così che i due esempi storici, da manuale, di funzionamento della regola e al contempo della sua eccezione, sono rimasti l’accordo del 1947 tra De Gasperi e Togliatti sul recepimento nella Costituzione dei Patti Lateranensi, il primo Concordato tra Stato e Chiesa voluto da Mussolini, e il durissimo confronto del ’49 sul Patto Atlantico, in cui il Pci si spinse all’ostruzionismo, sapendo che si trattava di una battaglia persa. Anche se ci vollero 27 anni, fino al ’76, prima che Berlinguer riconoscesse in una famosa intervista di sentirsi più sicuro sotto l’ombrello della Nato; e altri otto, fino all’84, per far sì che la regola del compromesso venisse messa per la prima volta in discussione, nello scontro sul taglio della scala mobile con Craxi e il governo che si definiva «decisionista». Fu una delle rare occasioni in cui Il leader comunista non si rassegnò alla sconfitta parlamentare e volle promuovere un referendum popolare, una prova d’appello tra gli elettori, contro il cosiddetto «decreto di San Valentino».
Può sembrare incredibile – ma non lo è – che la regola fondante della Prima Repubblica sia sopravvissuta anche nella Seconda, in cui tutto, o quasi tutto, è stato travolto dall’incompiuta «rivoluzione» italiana, dai verdetti dei sondaggi e dall’idea, meglio sarebbe dire dalla finzione, che non tocchi più ai governi e ai partiti decidere, ma alla «gente». Anche in questo caso, basta un semplice esercizio: Berlusconi, per dire dell’uomo simbolo del ventennio e dell’epoca nuova, è stato più potente quando era al governo o all’opposizione? Non ci sono dubbi: si vede anche adesso che, ridotto com’è ridotto, ha in mano le chiavi della riforma su cui Renzi ha messo la faccia, dopo una spettacolare ascesa al potere, partita, non a caso, dall’opposizione ai vertici del suo partito.
Lo stesso test, praticato sull’altra parte dello schieramento, fornisce una controprova, dato che il centrosinistra, nelle due principali e recenti stagioni di governo, dopo le vittorie elettorali del 1996 e 2006, s’è in sostanza liquefatto, e ha riservato a Prodi, protagonista di quelle esperienze, la vendetta dei 101 franchi tiratori nelle elezioni presidenziali dell’anno scorso, che brucia ancora.
Un breve excursus, sommario quanto si vuole, come questo, dimostra che il grande potere dell’opposizione, fondato sulla Costituzione e sul principio cardine della non-decisione, è trasmigrato intatto dai primi anni eroici del post-fascismo, della nascente democrazia e della fragile Repubblica italiana, alla maturità e alla crisi del sistema partitocratico e alla gran confusione dell’infinita transizione italiana. Sebbene possa fare impressione che al posto di Berlusconi, o di D’Alema, Veltroni, Fassino, e insomma dei leader di schieramenti maggioritari, oggi ci siano Vendola e i suoi sette senatori e Grillo con i suoi cinquantaquattro, la regola invalicabile vale anche per loro. E in quest’ambito, suona ovviamente da conferma che per oltre un trentennio siano andati falliti tutti i tentativi di cambiare la Costituzione (anche se in verità se ne parla da più tempo, addirittura dal 1969): perchè da qualsiasi parte la si prenda, e perfino se si aggira il problema della Carta, ripiegando sulla legge elettorale, la questione rimane la stessa: per consentire ai governi di governare, realizzando il programma votato dagli elettori, come avviene in tutte le normali democrazie, non c’è altra strada che ridurre le garanzie eccezionali – lo strapotere, appunto – che in Italia sono ancora concesse alle opposizioni.