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 2014  luglio 31 Giovedì calendario

SE BORGES VEDESSE IN TV IL TRONO DI SPADE

Come finisce, così si racconta. E poi ricomincia. Tutto uno staccar di teste e un abbondar di copula. È la saga. E Il trono di spade, la serie televisiva di Hbo giunta alla quinta edizione (trasmessa in Italia da Sky) resta la più antica delle novità, nel suo travolgente successo
popolare. Lombrichi giganti rosicchiano le radici del frassino del mondo. La serpe scagliata da Odino – come nel Ragnarök di A. S. Byatt (Einaudi) – cade e muta sembianze. La spina dorsale si fa rigida come un giavellotto: è guerra, e la brughiera è un riverbero di canti. Tutto è un unico racconto che si ripete oggi nelle serate del tempo libero d’Occidente.
Lunga, tragica, lussuriosa storia fatta di tante storie – tutte di tradimenti, incesti, amore puro, eroismo e battaglia – tratta dalll’opera letteraria di George Raymond Richard Martin Cronache del ghiaccio e del fuoco. Un racconto che non finisce mai, affidato alla spada che si fa largo nei Sette Regni. L’epica coincide con l’intrattenimento commerciale; e nella malia di un orizzonte che si ripete rispetto al canone classico della letteratura germanica. Per dirla con Jorge Louis Borges, in Letterature germaniche medioevali , saggio ora ripubblicato da Adelphi, «sono epopee tutte esistite ma che oggi hanno lo svantaggio di non esistere».
Il veggente di Buenos Aires, che non ebbe modo di assaporare l’effetto tutto pop del prodotto tivù, ne avrebbe ricavato – e la lettura del saggio, scritto a quattro mani con Maria Esteher Vàzquez, lo conferma – un divertimento già collaudato nel passato con Francisco De Quevedo, Miguel de Cervantes e Ludovico Ariosto fin nell’esito popolaresco di quest’ultimo nell’ Opera dei Pupi, dove l’infinita battaglia trascina in scena paladini e saraceni.
Tutto è lingua, tutto è scena. La mano di una dama è infatti «la città degli anelli d’oro». La poesia smuove per tramite della parola il tuono, lo strepito della battaglia, e la luce di luna accende la rugiada della spada: il sangue. Nel Beowulf, il mare è «il cammino delle vele», il sole è «la candela del mondo», il corpo è «la casa delle ossa», la lancia «il serpente della guerra». Uno è l’eroe e una deve essere la storia. Ogni semplificazione, però, non riesce a ridurre a due il campo: tra bene e male non esiste confine. L’interminabile variazione, specie all’orecchio dell’ascoltatore occidentale, suggerisce una sola morale a questa struggente favola. E cioè che mostri, streghe e orchi sono stanchi. Vogliono tornare alla morte. E così anche i draghi. E il drago, scrive Borges, è «il meno fortunato degli animali fantastici, appare sempre puerile». La buffoneria è un escamotage di eufemismi per officiare le tenebre, come spetta al nano Tyron Lannister, terzogenito di Tynn e di Joanna, sovrani della saga di Martin. È astuto, ironico e sensuale. Ed è gran bevitore.
Tutto nasce da romanzi da cui poi – oltre la serie, format ideale per un soggetto impossibile da costringere in un film – gemmano i fumetti, i videogame e un sovraccarico di ghiotta paccottiglia fatta di t-shirt e souvenir. Dalla più antica delle novità — da gustare dal divano di casa, con il computer in grembo — con una vicenda lunga, intrecciata e sanguinaria dove tutto ciò che suona remoto e sconosciuto ritorna sotto forma di consumo commerciale, s’incendia la fabula della perfetta dispersione contemporanea.
La saga, retaggio di una memoria profonda, è molto di più del genere fantasy. È piuttosto lo strutturarsi della memoria lunga nell’immaginario. Non conosce inizio o fine, né centro né ordine; e la spada, simboleggiante l’onore del cavaliere (la stessa daga che spesso, come nelle Mille e una Notte, separa i corpi degli innamorati nel giaciglio), altro «non è che il resto del martello». Così secondo l’interpretazione di Borges, che scorge nella lama il vampeggiare del dio Thor.
Sono le spade e non le lampade a illuminare il paradiso di Odino. Tutta la luce del mondo deriva dalle spade, il cui filo è raggiera di una ruota cosmica, il Ragnarök, «l’oscurarsi degli Dèi». L’estremo rifugio dell’origine è il Nord. La paganitas, nucleo della nostalgia, è il sentimento della poesia. Anche Rudyard Kipling, nel racconto Puck il folletto , senza attardarsi nella teofania, ne decifra la vera natura: nient’altro che un dio. Quel Puck, scalzato dal Cristo e perciò costretto a rifarsi un’esistenza terrena nella fornace di un fabbro è la trasfigurazione di Wotan, Woden o Odino che dir si voglia nell’accezione – rispettivamente – germanica, sassone e scandinava.
Emana da sé l’onnipotenza semantica, la saga. L’inevitabile orientalismo delle Americhe – sia per Borges, nel sud latino, sia per George R. R. Martin, nel nord atlantico – non può che essere il germanesimo medievale. E quando una donna, nel racconto del Sangue dei Re (episodio della serie Il trono di spade ), spoglia un guerriero e lo bagna di baci pur legandolo come in una trappola sado-maso, piazzandogli sul petto e nell’inguine delle mignatte, non si sta aggiornando l’arte del bardo con la strumentazione della pornografia: si sta solo rinnovando un effetto speciale. Incesti e scene al limite della pedofilia, disseminate nei grovigli di genealogie e tradimenti, pagano il pedaggio al caos. Ogni oscurità inghiotte l’alba. Ogni sentenza deve proseguire nell’esecuzione, e al condannato spetta il privilegio di avere nel boia un testimone più che un sicario. A lui, a chi uccide, spettano l’ultimo sguardo del morituro e la parola estrema dell’ucciso. E come nella sabbia si traccia un limine che va oltre lo spazio e il tempo, così nella voce – il cui suono, il canto, è saga infinita – il racconto delle lame e del sangue moltiplica illimitatamente quella simmetria di fatti e colpi di scena che, senza più il cartagloria dei cantastorie, nelle serie di produzioni industriali di forte sceneggiatura e furba regia, trova il più smagliante cartiglio.
Tutto quell’ascoltare i racconti nelle lunghe veglie intorno ai fuochi, come nel medioevo del Nord iperboreo, ha trovato la propria trasposizione televisiva. Gli dèi non considerano meno glorioso farne merce del Nibelungenlied, L’Iliade dei tedeschi, o del Shahnameh, il Libro dei Re di Persia. Ancora una volta è Borges: Il giardino dei sentieri che si biforcano . L’infinito si appropria di un mondo finito, e Aristotele, che ridusse a poche righe i ventiquattro libri dell’ Odissea, difficilmente potrebbe cavarne una trama di principio, svolgimento e conclusione.
Come finisce, così si racconta. Come nelle giostre di popolo, con le trovate dei funamboli, nel vuoto del tempo carnascialesco, il riemergere di un fondo arcaico — la bellezza totalmente glamour di Emilia Clarke, per esempio, perfetta nell’interpretazione della regina Daenereys Targaryn — sopravanza la verità storica. Tutto ricomincia. Alla sovrana spetta il privilegio di toccare tre Uova di Drago pietrificate e così accendersi di vita nuova, riceverne potenza ed erotismo, e allo stesso modo il pubblico, in virtù del telecomando si consegna a quell’immaginario con l’inconsapevolezza di restituire, puntata dopo puntata, serie dopo serie, l’eternità agli dèi.