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 2014  luglio 31 Giovedì calendario

LA LINGUA ITALIANA E LA CONFESSIONE DI UNO SCRITTORE SEMIRIUSCITO

Ingente la posta ricevuta da Corrado Augias con riferimento al mio articolo dove si trattava principalmente di lingua italiana, tra cui un importante contributo di Tullio De Mauro. Me ne rallegro, c’è qualcuno che pensa a qualcosa di serio, di vitale, dove de te ipso agitur.
Ma io non volevo che narrare un mio fallimento d’autore per non aver potuto, scrivendo e pubblicando articoli e libri (sfioro i settanta di giornalismo, di poco superato da Arrigo Levi e Enzo Bettizza) incessantemente, attaccare una flebo al capezzale della lingua italiana, sinistramente stuprata da malparlanti e malscriventi senza numero, e da predicatori politici che sodomizzano quanto ne resta, nella impunità più completa.
In verità non era che una confessione pubblica di scopi mancati; non vedo la cosa come un problema. Certo, di intolleranze linguistiche trabocco, come fossero una cena a base di peperoni, cetrioli, meloni o bagnacauda... E ad ogni «piuttosto che» al posto di «oppure» ho sintomi di reflusso, ma ho un riparo forte come la morte: la tranquillità d’animo di un dovere perfettamente compiuto, secondo la parola di Baudelaire, faro nelle tenebre, «come un buon alchimista e un’anima di santo». Che cosa c’è di più pessimistico che mettere sotto un titolo di romanzo la dolente precisazione che è scritto in lingua italiana? ( In un amore felice, Adelphi 2011, fulmineo insuccesso). Però mi sento appagatissimo da quando, nel 1970, la mia prima versione pubblicata di un rotolo biblico, buttata nell’indecenza dell’ignoranza biblica italiana (Qohélet o l’ Ecclesiaste, Einaudi), in una lingua non zuccherata né timorosa, ebbe tra i giovani di allora, specie delle sinistre estreme, un successo da Bibbia di Re Giacomo. E da allora non c’è persona di discreta cultura che dica ancora Ecclesiaste invece di Qohélet (preghiera: pronunciatelo per esteso, con lieve aspirazione della acca) che seguita, dopo quarantaquattro anni a magnetizzare e a destare dal sonno lettrici e lettori nelle più recenti e più scavate edizioni Adelphi, dal 2001! Ma allora: che non sia ancora sepolta del tutto nelle discariche questa mia disperata lingua italiana?
Quasi quasi mi viene da opinare di non essere un fallito a metà, ma addirittura, scandalosamente rispetto all’appiattimento, uno scrittore semiriuscito! Nel Ponte sulla Drina, Ivo Andric fa dire a un turco, al tempo dell’occupazione austroungarica della Bosnia: – Basta, me ne vado di là: sono stufo di sentire suoni di campane! – Ma noi, cittadini di questa povera unione di europei, se volessimo emigrare in Turchia o in qualsiasi altra nazione per sottrarci alla colonizzazione linguistica dell’angloamericano, metteremmo le orecchie refrattarie al sicuro? Per niente! La pirlolingua degli informatofoni non ha frontiere! I dizionari delle grandi lingue nazionali ad ogni nuova edizione si vanno vieppiù gonfiando di nomenclatura dell’anglorobotismo digitale, e se nel vostro curriculum non mettete, forzati a mentire, «ottima conoscenza inglese», non vi piglia nessuno tra Gibilterra e gli Hinuit. Il sanguinoso oltraggio alla lingua, dei corsi bocconiani e politecnici impartiti direttamente, arrogantemente, in inglese, non suscita nessuna rivolta, salvo le sporadiche indignazioni dei difensori per cui è bello agitare lo scudo in luoghi qua e là detti Termopili, certi che non ci premierà il canto di Simonide.
Come significativa riuscita umana posso vantarmi di aver liberato in casi di allucinazione grave un piccolo numero di giovani parlanti semitalofoni dall’Okei- occhei-OK parlato e scritto da cui erano afflitti.
La lingua malata non è incurabile. Si possono sempre tentare le cure palliative. Ma i messaggi sui cellulari rilevano desolazioni di pianeta morto. Io salvo brandelli di comunicazione pensando che sto inviando telegrammi, mezzo eccellente che insegna la stringatezza (perfino le Poste italiane lo hanno conservato); perlopiù gli scarichi del telefonino sono macellerie grammaticali di gerghi a sé stanti (6, x, nn...), veri profluvii d’alvo dissestato che scorrono da tutti i punti verso una sterminata fogna di zeri. A volte ci cogli un fiore, ma ci vuole fortuna. Riga sopra ho usato l’espressione ariostea profluvio d’alvo (per dissenteria), il riferimento storico è alla discesa in Italia di Carlo di Valois, soldataglia poco amante dell’igiene, da cui sbocciò nella maldicenza popolare e nella terminologia medica il «morbo gallico» (o «mal francioso»). Vuoi vedere che, tra i giovani d’Italia quel profluvio non te lo tradurrebbe nessuno? E alvo? Ne fermo due in via del Tritone: – Per favore profluvio d’alvo? – Mi indicano un po’ smarriti che dev’essere dalle parti di Trinità dei Monti. E ariosteo che roba sarà? Ariosto chi sarà? Qual è il suo Primo Album? – Oggi per pranzo Kultura, vignettava Domenico Bartoli sul Mondo di Pannunzio: – Ariosto con Pontormo! –.
Senza scrittura manuale, senza lettura di libro-libro, senza consultazioni incessanti di dizionari, non impari a parlare né questa né altre lingue, non impari nulla di quel che ti sta dietro nel tempo lineare. Hai un bell’accumulare lauree e diplomi, sei un ignorante proponibile per la Camera dei Deputati o qualche poltrona di ministero.
Eil Mal Francioso sopraevocato non è indifferente alla conoscenza di Beethoven, di Baudelaire o di Goya, non meno che alla storia dei bordelli e delle stufe medievali. Si può ammirarne i sorprendenti effetti nella pala di Isenheim a Colmar – opera di Mattia Grünewald che vale il viaggio – e precisamente nello scomparto delle tentazioni di Sant’Antonio, che non sono sederi di bellezze ma mostri spaventosi, tra cui uno, appoggiato a una pila di libri, appare ricoperto da capo a piedi di orribili schianze purulente, apice di Mal Francioso. Ce ne ha liberati il dottor Fleming, ma è meglio non passarci.