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 2014  luglio 30 Mercoledì calendario

BERTOLA-BERRUTI IL “BALÙN” NON STANCA

«Rischiavo di perdere il braccio destro. Una trombosi. Alle Molinette venne a trovarmi Giovanni Arpino. Capì tutto. Che il mio cruccio, che il mio dramma, non era l’agonismo, tornare a vincere. Capì che la mia era una lotta contro il destino, che pativo un’ulteriore prova dopo diverse sventure». Canelli. Massimo Berruti, classe 1948, villaggio natale Rocchetta Palafea, nell’Astigiano, superstite di un tempo dove vibrava la consapevolezza di essere figli di qualche giornata assolata e di troppe giornate di grandine.
«Fui testimone di un incontro fra Augusto Manzo e Giovanni Arpino. Arpino che non distraeva l’occhio dal polso di lui, il re del pallone elastico. Forse stava scrivendo mentalmente l’eccelso elzeviro: “Un re, dal bicipite mostruoso, dal polso destro che merita un calco, ma tenero e leale e solenne come un esametro”» cita a memoria Felice Bertola, 1944, di Gottasecca, un microcosmo tra le province di Cuneo e di Savona, dodici titoli italiani, contro gli otto di Manzo e i sei di Berruti.
Lungo la traiettoria di Augusto Manzo. Lungo le colline dell’Unesco. I miti dopo il mito. Berruti e Bertola, i dioscuri del pallone elastico che vola di vigna in falò, di rio in campanile. Tra Langhe, Roero, Monferrato. Da tempo Felice e Massimo hanno salutato il balùn (ma allenano le nuove energie, coltivano gli eredi Massimo Vacchetto e Bruno Campagno) che si contesero con pugni fuoriclasse fra gli Anni Sessanta e Ottanta. Magari, talvolta, dandosi segreti appuntamenti per rinnovare le antiche tenzoni. Accadrà? Perché domandarglielo? La leggenda non germina forse la leggenda?
Dove esordirono Berruti e Bertola? E se fossero loro l’eco di Sergio, il futuro campione che in un racconto di Beppe Fenoglio sostiene l’«esame di maturità» a Mombarcaro, visionato da Augusto Manzo - «un uomo altissimo, e con un gonfio torace, e la spalla destra sensibilmente più alta dell’altra, l’avambraccio destro grosso e tubolare come un mattone»?
Berruti e Bertola, un vis-à-vis nel cuore di Canelli. Avvertendo sempre la necessità, nella vita come nello sferisterio, di far da specchio ad Augusto Manzo, nato nel 1911 a un tiro di pallone, a Santo Stefano Belbo, raccogliendone la sfida scolpita in un verso di Cesare Pavese: «... e che la dicano quei di Canelli».
Berruti, «braccio d’oro», come lo soprannominò Arpino, nonché pittore «riconosciuto» da Ernesto Caballo e da Luigi Carluccio. Bertola, innalzato come «il Rivera dei campanili». «Ma - obietta l’amico-rivale - ricorda di più Gigi Riva». Berruti, un puer del pallone elastico (o pallapugno), che può, che avrebbe potuto, subire una sconfitta per una ragione estetica, per un vezzo (non è forse lui l’«abatino», la proiezione del Gianni rossonero?). Bertola, un Franti, riflesso sul campo della «cattiveria» che Stendhal scrutava nel carattere della gente subalpina.
Discendere per li rami di Manzo. Berruti: «Il primo ricordo risale a quando avevo otto anni. Era un totem». Bertola: «Stavo allora a Torino. Il 1960. Fui chiamato a sostituire un giocatore nella quadretta di Augusto-Gustu, ancora in auge lo sferisterio deamicisiano di via Napione. Avevo sedici anni... Mi mise a mio agio: “Fa’ cosa sai fare...”».
Il pallone elastico e la Langa. Berruti: «Di gara in gara, come spettatori e come attori, la si è vista cambiare, radicalmente. Quegli Anni Cinquanta: le strade sterrate, una macchina per paese, la corriera che passava due volte la settimana, la televisione al bar, accesa per Lascia o raddoppia? E il balùn: il cimento che accomunava, chi non lo superava subiva una sorta di esclusione». Bertola: «Quando il vino era una fatica e un miracolo artigianali. Di là da venire la produzione industriale e il passaporto doc e la conquista del mondo».
Ma perché il pallone di 190 grammi (una volta di 180) predilige la Langa, le Langhe? Berruti: «È il piacere della sofferenza, una forma della malora. Rammento una partita ferragostana: quattro ore sotto il sole, cinque chili persi». Bertola: «Con un supplemento di pena. Non ci lasciavano bere. L’acqua, anche un goccio, è dannosa, dicevano, si diceva...».
Salvo rifarsi. Le pantagrueliche immersioni di Manzo: «Vini, tagliatelle, ravioli, l’infinità degli antipasti piemontesi, carne cruda e bolliti» annotava nel taccuino Giovanni Arpino. Berruti, ora quasi cento chili, ma timido di fronte a un risotto con funghi: «Correva il 1973. Primo scudetto. Non ci si alzò da tavola per un dì e mezzo. E un’altra volta: ribaltata in vittoria una sconfitta annunciata, mi toccò festeggiare onorando 45 cene in due mesi». Bertola: «A proposito di Manzo. Era il ’63. C’era papà Ceretto, un certo Pinin, Defilippi, e lui, Gustu. Da Alba si raggiunse Gottasecca, dove i miei avevano un ristorante. Cominciò una maratona innaffiata di dolcetto ammaliante, undici, dodici gradi. Di tanto in tanto Manzo si alzava. Per risedersi, condividendo con il sindaco, il parroco, qualche vecchio. Verso le sei del pomeriggio chiedeva un po’ di minestrina...».
Come non darsi del «tu» all’ombra delle colline, a un soffio da Santo Stefano Belbo, aspettando con Cesare Pavese la luna e i falò? «Ero venuto a riposarmi un quindici giorni e càpito che è la Madonna d’agosto. Tanto meglio, il va e vieni della gente forestiera, la confusione e il baccano della piazza, avrebbero mimetizzato anche un negro. Ho sentito urlare, cantare, giocare a pallone; col buio, fuochi e mortaretti: hanno bevuto, sghignazzato, fatto la processione...».
Bruno Quaranta, La Stampa 30/7/2014