Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  luglio 30 Mercoledì calendario

LIBIA, IL PAESE DELLE 1.200 MILIZIE

Le fiamme e il fumo che si levano dall’incendio del deposito di carburanti di Tripoli appaiono come una metafora della Libia di oggi e richiamano le traiettorie dei missili occidentali che nell’estate del 2011 incenerivano il quartiere generale di Gheddafi: le macerie di Bab al Aziziya, roccaforte del dittatore, non sono mai state rimosse e occupano ancora una larga parte della capitale libica. Dovevano essere il simbolo da cui ripartiva la nuova Libia, adesso sembrano un monito per gli stessi libici e le potenze internazionali: i fautori dell’intervento militare, il presidente francese Sarkozy e il premier britannico Cameron, seguiti dal leader turco Erdogan, allora avevano passeggiato trionfalmente per Tripoli e Bengasi annunciando che «la missione era compiuta». Adesso persino la tregua raggiunta ieri tra le milizie di Misurata e Zintan, che si combattono all’aeroporto, appare effimera e dettata soltanto da motivi tattici.
Non solo in Libia da mesi non mette piede nessun politico ma se ne stanno andando tutti, o quasi: evacuano i cittadini tedeschi, i francesi, i turchi, e anche gli italiani riducono al minimo la presenza. Si prova a occultare una débacle colossale: l’incendio di Tripoli è fuori controllo, così come tutta la Libia. Gli americani sabato scorso hanno svuotato l’ambasciata con un convoglio diretto verso il confine tunisino composto da centinaia di mezzi: impossibile non notarlo mentre grandinavano i razzi delle milizie. La fuga dalla capitale era un altro motivo di sommo fastidio per l’amministrazione di Barack Obama che mette a bilancio un altro insuccesso d’area, in un Paese dove la presenza americana è stata segnata l’11 settembre del 2012 dall’attacco al consolato di Bengasi e dalla tragica uccisione dell’ambasciatore Chris Stevens.
Ma chi vince e chi perde in Libia? Combattono e si dividono il territorio, petrolio e gas compresi, circa 1.200 milizie in un Paese di appena sei milioni di abitanti di cui oltre un milione vive in Tunisia. Chi ha tentato e tenta ancora di manovrarle, dentro e fuori, non ha avuto troppa fortuna. Turchi e qatarini, che di guai in Medio Oriente ne hanno già combinati abbastanza, in Libia si erano subito schierati con gli islamici e ora fanno i bagagli perché sono entrati nel mirino delle fazioni rivali. I britannici hanno lavorato alacremente per sfilare la Libia all’Italia, disseminando i loro uomini nell’amministrazione centrale, ma i risultati di queste sagaci manovre sono stati miseri. E i francesi che con gran rullo di tamburi e fanfare sembravano doverci sostituire come principali fornitori della nostra ex colonia e acquirenti di petrolio presentano un bilancio deprimente: la Libia di cui sembrava sapessero tutto, dopo avere patrocinato con afflati giacobini la rivolta di Bengasi dell’11 febbraio, è scomparsa dai loro monitor. Ecco perché di Libia gli europei parlano malvolentieri e a Bruxelles si sono sempre mostrati infastiditi dagli allarmi lanciati dalla diplomazia italiana: Tripoli sembrava una facile preda da accompagnare verso una transizione che prometteva affari a pioggia e invece si è rivelata un boccone indigeribile e da depennare dal menù, compresi i disgraziati che a migliaia galleggiano sui barconi dei trafficanti nel canale di Sicilia. La Libia non è una bella pagina di politica europea, anzi adesso non si sa proprio che fare, né sul piano militare né su quello politico.
E così a Tripoli le milizie si affrontano con armi sottratte ai depositi di Gheddafi che nessuno gli strapperà più di mano, come dimostrano molti e convincenti precedenti storici. La milizia di Zintan, che si auto-definisce "liberale", si appoggia ai gruppi armati Qaaqa e Sawaq, riferimento della 32ma Brigata di Gheddafi, quindi con folte schiere di ex del regime: sono questi i controrivoluzionari, che dopo aver partecipato alla rivolta ora vorrebbero una restaurazione oligarchica in chiave anti-islamica. Misurata, la milizia rivale, sostiene gli islamisti che dopo avere segnato una battuta d’arresto nei consensi alle elezioni di giugno tentano di conquistare con le armi il terreno perduto alle urne con il voto. Ma la situazione più preoccupante rimane la Cirenaica. Se il generale Khalifa Haftar, appoggiato dall’Egitto, vince la sua battaglia privata contro gli islamici sarà comunque una vittoria personale e non dello stato. Ma se perde andrà anche peggio: i salafiti di Ansar al Sharia potrebbero dilagare. L’unico punto su cui le fazioni sono d’accordo è continuare ad avere un esercito debole: gli islamici soprattutto, che temono uno stato in grado di restaurare l’ordine o un generale capace di attuare un golpe. In realtà i vincitori, nel caos e nell’anarchia, sono le vecchie e resistenti strutture di potere tradizionali, i legami di parentela, tribali e di clan. Nella nuova Libia a comandare, anche se soltanto su una città o un villaggio, sono ancora gli zaim, non i ragazzi che accompagnammo nella rivoluzione di febbraio.
Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 30/7/2014