Giampaolo Visetti, la Repubblica 30/7/2014, 30 luglio 2014
TERREMOTO A PECHINO, L’ULTIMO INTOCCABILE ALLA SBARRA PER CORRUZIONE
L’uomo che per dieci anni ha vegliato su sicurezza e stabilità della seconda economia del mondo, proteggendo i leader del partito comunista, è da ieri ufficialmente sotto inchiesta per corruzione. Poche righe dell’agenzia di Stato Xinhua hanno confermato ciò che da mesi i cinesi, pur sospettandolo, non osavano confidare neppure a se stessi: Zhou Yongkang, 71 anni, capo della polizia e dei servizi segreti tra il 2002 e il 2012, dovrà rispondere di «serie violazioni disciplinari».
È la prima volta, in 65 anni di potere rosso, che un funzionario entrato tra i nove “intoccabili” del comitato permanente del Politburo finisce sotto processo con un’accusa che prevede la pena di morte. La leadership di Pechino sapeva da dicembre che l’impero parallelo costruito dal mandarino dell’intelligence era crollato. Fino a ieri però la vecchia guardia e la sinistra conservatrice del partito avevano sperato che il presidente Xi Jinping non trovasse alleati e coraggio per rendere pubblico l’arresto dell’uomo di fiducia dell’ex leader Hu Jintao e dell’ex premier Wen Jiabao, censurando un intero decennio di autoritarismo e una generazione di leader cinesi.
Xi Jinping invece, deciso a trasformare la lotta contro la corruzione politica nella sua missione per salvare il partito-Stato, ha scelto di spingere all’estremo la sfida che lo pone ora come unico interlocutore tra il popolo e il regime. I “riformisti” e i cinesi che non sopportano più gli eccessi dei funzionari esultano, sostenendo che la “guerra di Xi”, dopo le «mosche», come promesso, tocca finalmente anche le “tigri”. Nostalgici neo-maoisti e apparato accusano invece i nuovi “principini” di usare la lotta alla corruzione come arma per un’ennesima epurazione interna contro gli sconfitti nella corsa per il dominio della Città Proibita. Il comitato centrale comunista, cedendo alle pressioni di Xi Jiping per ufficializzare l’inchiesta su Zhou Yongkang, ha dimostrato ieri di stare con il presidente e di prendere le distanze dallo stesso Jiang Zemin, vecchio leader che fino all’ultimo ha cercato di non far esplodere lo scandalo.
La partita dentro il partito, alla metà del primo mandato di Xi Jinping, è però ancora aperta e il presidente, dopo la rottura con i predecessori, può contare adesso solo sull’appoggio certo di quella che in Occidente si definisce opinione pubblica. Passaggio ad alto rischio, per una dittatura, ma l’annuncio della caduta dell’ex onnipotente capo della sicurezza equivale a un terremoto. Zhou Yongkang, scomparso nel nulla il primo ottobre scorso e di fatto agli arresti domiciliari da mesi, avrebbe occultato un tesoro da 14,5 miliardi di dollari, distribuito tra famigliari ed alleati politici.
Gli investigatori della commissione centrale per la disciplina, affidata a Wang Qishan, dall’inizio dell’anno hanno fermato e arrestato oltre 300 persone tra parenti, alti funzionari e uomini d’affari, facendo terra bruciata attorno al loro ex superiore. In carcere sono finiti anche moglie, figlio, un fratello, suoceri, segretari, autisti, guardie del corpo e generali dell’esercito, tutti accusati di aver trasformato le forze dell’ordine in una cassaforte personale. Tra i beni sequestrati, conti bancari per 4 miliardi di euro, obbligazioni per 6 miliardi, ville e immobili per 2,5 miliardi, oltre che 60 automobili, opere d’arte, oro e gioielli per 150 milioni. Nelle scorse settimane, quasi ad annunciare il drammatico epilogo, erano stati arrestati anche l’ex presidente del colosso petrolifero Cnpc, Jiang Jiemin, l’ex segretario Ji Wenlin e il segretario comunista del Sichuan, ultimi cardini politici della galassia di Zhou Yongkang. A far salire ancora di più la tensione, nelle ultime ore, voci di una caduta imminente degli stessi Hu Jintao e Wen Jabao, leader che inchieste dei media stranieri hanno indicato come terminal di immense fortune illegali. L’ortodossia di sinistra accusa Xi Jinping di vendicarsi per l’appoggio che Zhou Yongkang offrì all’ex simbolo neo-maoista Bo Xilai, avversario nella lotta per la successione nel 2012, condannato all’ergastolo assieme alla moglie Gu Kailai. La maggioranza dei cinesi interpreta invece l’offensiva presidenziale come il tentativo cruciale di salvare il partito-Stato dall’implosione morale, preludio di un crollo in stile sovietico. Per ora la propaganda si dimostra fedele al nuovo comitato permanente e censura le voci sul patrimonio occulto che la stessa famiglia di Xi Jinping avrebbe accumulato all’estero. In una Pechino sotto shock, scossa ora dall’incubo di una nuova “rivoluzione culturale”, restano il problema dell’indipendenza dei magistrati e della lealtà delle forze dell’ordine.
La sempre più decisiva classe media comincia invece a dubitare dell’affidabilità di un regime che per dieci anni si è consegnato ad uno sceriffo che accusa adesso di essere stato il peggiore dei criminali. Nelle stesse ore in cui Zhou Yongkang viene dato in pasto al popolo, le autorità intimano agli ex militari di restituire le case dell’esercito e ai funzionari riparati all’estero di rientrare in patria. Xi Jinping rilancia con la “caccia alle volpi” in fuga, versione globalizzata della purga che demolisce il decennio d’oro cinese: una medicina da cui non dipende solo la vita della Cina.
Giampaolo Visetti