Sergio Romano, Corriere della Sera 30/7/2014, 30 luglio 2014
LA BATTAGLIA PER LE RIFORME VINTA A BERLINO, PERSA A ROMA
Per l’ennesima volta, sento dire che le fortune della Germania sarebbero legate a «riforme». Chiedo, allora, che finalmente ci venga svelato in dettaglio in che cosa abbiano consistito tali miracolose riforme: potremmo soppesarle e copiarne qualcuna. Non mi si dica che tali riforme, in ultima analisi, abbiano ridotto il costo del lavoro per unità di prodotto o altre amenità del genere. Chiesi, tanti ma tanti anni fa, a persona che ben conosceva quel mondo, quale fosse il segreto delle fortune della Germania; mi rispose: «Vedi, là nessuno si ammazza di lavoro ma, là, tutti lavorano con impegno e serietà». Capii immediatamente il messaggio. Si tratta di un popolo disciplinato, dote, questa, assolutamente necessaria, ad esempio, per operare nell’ambito della grande industria (anche nell’ambito militare, peraltro). Ci sarà pure un motivo se, là, la grande industria ha prosperato mentre da noi ha fallito su tutta la linea. Non credo, pertanto, che c’entrino le riforme quanto invece l’indole di quel popolo che, potrà non essere simpatico a tutti, ma che sul piano organizzativo è molto, molto diverso da noi.
Luciano Gioia
Caro Gioia,
Le riforme a cui generalmente si allude nel caso tedesco sono quelle realizzate dal governo di Gerhard Schröder fra il 1998 e il 2005. Ma possono essere comprese e apprezzate soltanto se collocate nel contesto della situazione economica tedesca dopo l’introduzione dell’euro alla fine degli anni Novanta. Il marco era sopravvalutato e il suo valore aveva un effetto negativo sulle esportazioni. Il costo dell’unificazione pesava ancora sul bilancio dello Stato. La produttività cresceva meno dei salari. E la risposta di molti industriali a questo stato di cose era la delocalizzazione, vale a dire il trasferimento delle fabbriche soprattutto nei Paesi ex comunisti, dove la mano d’opera era complessivamente bene istruita e i salari molto più bassi. Schröder spiegò ai sindacati che quella emorragia avrebbe danneggiato in ultima analisi anche le loro organizzazioni e li persuase a collaborare. Fu molto più facile da quel momento fare le riforme che maggiormente contribuirono al rilancio della economia tedesca: riduzione dei costi delle aziende, diminuzione dei salari reali (più lavoro per la stessa retribuzione), nuovi contratti di lavoro a tempo determinato, diminuzione della spesa sanitaria, allungamento dell’età lavorativa. Nel giro di pochi anni tutti i principali indicatori economici — esportazioni, produttività, occupazione — dimostrarono che la cura Schröder stava facendo miracoli. Ne avemmo la prova quando il cancelliere socialdemocratico fu abbandonato da una parte del suo partito e perdette le elezioni del 2005. Era divenuto impopolare, ma la terapia non sarebbe stata efficace se la riforma non avesse comportato parecchi sacrifici e i riformatori non fossero stati pronti a pagarne il prezzo.
In Italia le cose sono state fatte a metà. I sindacati non volevano la collaborazione, ma la concertazione, vale a dire un condominio che avrebbe inevitabilmente limitato le capacità riformatrici di qualsiasi governo. La legge Biagi tentò di liberalizzare il mercato del lavoro, ma fu tenacemente combattuta e naufragò sullo scoglio dell’art. 18. Berlusconi voleva sopravvivere più di quanto volesse riformare. La legge Fornero sulla pensione a 67 anni arrivò tardi in una fase di crisi, quando i suoi effetti avrebbero giovato al bilancio dello Stato ma aumentato la disoccupazione giovanile.
Le riforme sono difficili in Italia, caro Gioia, perché ogni corporazione, dai maggiori ordini professionali alla più modesta sigla sindacale, ha di fatto un diritto di veto. Abbiamo spinto il concetto di democrazia sino a generare il suo opposto: la tirannia delle minoranze.