Guido Santevecchi, Corriere della Sera 30/7/2014, 30 luglio 2014
INCRIMINATA LA SUPERSPIA DI PECHINO
Mai, nella storia della Repubblica popolare cinese, un ex membro del Comitato permanente del Politburo era stato incriminato per corruzione. Era un patto non scritto, ma di fatto concordato dopo lo scontro fratricida della Rivoluzione culturale. Ieri il tabù è stato spezzato: Zhou Yongkang, 71 anni, ex capo dei servizi di sicurezza della Cina, è stato messo sotto accusa per «gravi violazioni della disciplina del partito», una formula usata per i corrotti. Tra il 2007 e il 2012 Zhou era stato uno dei nove uomini più potenti del regime, il più temuto, perché controllava servizi segreti, forze di polizia, corti di giustizia. Era tanto potente da potersi permettere un tentativo di difesa di Bo Xilai, il capo del partito della megalopoli di Chongqing, l’uomo nuovo del partito accusato di abuso di potere e corruzione nel marzo del 2012. Zhou cercò di salvare Bo, si disse che i due avessero tramato insieme per cercare di sbarrare la strada a Xi Jinping, che proprio in quei mesi drammatici stava per essere eletto segretario del partito comunista e capo dello Stato. Una storia solo sussurrata, piena di buchi neri, come i quindici giorni del settembre 2012 nei quali Xi scomparve di scena. Davvero Bo e Zhou avevano tentato un golpe di palazzo? Di sicuro, Xi Jinping ha vinto la partita: Bo Xilai è stato condannato all’ergastolo, ora è venuto il momento di saldare i conti anche con l’intoccabile Zhou. Era più di un anno che fonti di Pechino avevano rivelato alla stampa straniera che l’ex capo dei servizi segreti era sotto assedio: confinato a casa con la moglie, ex star della televisione statale. Sui giornali cinesi invece, nemmeno una riga: vietato anche scrivere il nome del sospettato, sempre in ossequio alla regola non scritta dell’immunità per gli ex membri del Comitato permanente del Politburo. Ma intanto il cappio si stringeva: uno alla volta sono finiti sotto accusa tutti gli uomini più vicini all’eccellente in disgrazia. Si sono contati 300 arresti, compreso il figlio, i segretari particolari, ministri, dirigenti petroliferi, imprenditori miliardari. Si è saputo che erano stati sequestrati beni per dieci miliardi di euro tra ville, appartamenti, lingotti d’oro, opere d’arte, titoli azionari, senza mai citare Zhou pubblicamente. Xi da mesi ripete che per battere la corruzione dilagante schiaccerà le mosche (i piccoli burocrati) e caccerà le tigri (gli alti gradi del potere). Zhou era una tigre, ormai privata di denti e artigli, mancava solo l’atto finale, l’incriminazione pubblica. Ieri la Xinhua ha liquidato la messa sotto accusa di Zhou in poche righe sotto il titolo: «Catturata la grande tigre», dedicando più spazio all’annuncio che in autunno il vertice del partito discuterà di riforma del sistema giudiziario: un altro segnale di forza del presidente, che dà credibilità alla campagna anti-corruzione. Ma molti sospettano che dietro l’ondata di arresti che ha colpito anche una quarantina di dirigenti di livello ministeriale, ci sia una grande purga degli ultimi avversari politici di Xi.