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 2014  luglio 29 Martedì calendario

L’AMMAZZAFUGHE E IL GLADIATORE LE STORIE INCROCIATE DI JI E DE MARCHI

Stiamo sull’attualità, senza fretta e con frutta. Ottavio Bottecchia (8,5) in francese aveva mandato a memoria questa frase: «Pas de bananes, beaucoup de cafè, merci». Di banane, nella canzone, non ne aveva più Joséphine Baker, che all’arrivo di un Tour a Parigi voleva una foto con Bartali (9,5) ma Bartali disse «non posso, sono fidanzato». Gianni Brera (n.g.) prese una spaventosa ciucca di champagne (dopo un pernottamento a Reims, va precisato) e siccome sull’auto aveva la nausea il vecchio suiveur Guido Giardini gli consigliò di combatterla a colpi di banane ma la situazione peggiorò drasticamente. La premessa bananiera non può che portare a Carlo Tavecchio, che non si può definire il nuovo che avanza, visto il vecchio che contiene già il cognome, per sorvolare sul resto, ma un grande agonista sì, un combattente. Non è da tutti sparare cazzate prima ancora di essere eletti.
Dopo, è più facile. Abete avrà avuto tanti difetti, ma una frase così non l’avrebbe detta nemmeno dopo un pernottamento a Reims. Stiamo parlando della presidenza della Federcalcio, che tenderei a chiamare Federcacio, perché il gatto non c’è e i topi ballano. Tanto più sapendo che il gatto lo dovrebbero eleggere loro, i toponi. Andrà a finire così: Tavecchio sarà il nuovo presidente, i dissenti sono quattro gatti. Aumenteranno le vendite di banane, perché è ovvio che i lanciatori di banane si moltiplicheranno, e con che faccia il presidente del calcio gli farà la paternale? Sono tre giorni che Malagò, presidente del Coni, tace. Ed è strano, perché direbbe la sua su tutto, dalla caolinizzazione dei feldspati all’ultimo cd di Capossela (8). Se non parla, è perché sta meditando qualcosa. Ad ogni modo, non aspettatevi un mio voto su Tavecchio. Lo voteranno già Lotito e il suo seguito, meglio stare alla larga dal carro del vincitore.
Le cose del calcio, fuori Italia, arrivano un po’ attutite, perché i giornali italiani che una volta si trovavano anche alla stazione ferroviaria di Perpignano ora non si trovano più nemmeno a Lilla, a Reims o a Besançon. A Parigi sì, ci sono, ma in bianco e nero (passi) e in versione mutilata, alleggerita, nel senso che sono tagliate alcune pagine, quasi sempre di sport. In compenso aumentano le parole italiane nel linguaggio comune. Quelle musicali (andante, allegretto) sono arcinote. Quelle ciclistiche (gruppetto, gregario) anche. Nei menu, presenti da tempo expresso, cappucino e rizotto (nessuno è perfetto) sono entrati panino (da non confondere col sandwich), ciabatta, burrata (usata spesso a sproposito, ma questo succede anche in Italia). Ora anche ristretto. Alle varietà di carpaccio (di tonno, di cappesante, di bue, di melone, di calamari) si è aggiunto il più insignificante, per non dire stupido, di tutti: il carpacaccio di ananas (2,5). Detto da uno a cui piace l’ananas. Mentre mi spiace deludere i lettori che a fine Tour si aspettano qualche segnalazione gastronomica. I corridori arrivano sempre più tardi e la corsa è la cosa più importante. Se poi si mangia e beve decorosamente, meglio. Ma, al di là di un imprecisato numero di omelette (legittima difesa, in tutto il mondo), non ho nulla da dichiarare. O forse una testina di vitello appena fuori Mulhouse, con sopra la sua bella cipolla cruda tagliata finissima (carpaccio di cipolla?) e salsa gribiche a parte.
Una testina così in Italia si mangia solo a Villabassa, a Brunico, ad Albino, a Vipiteno: insomma in Alto Adige. La verità è che ci siamo riempiti e saziati di Nibali dall’inizio alla fine . Un Nibali ardente e al dente in tutte le salse: worcester in Inghilterra, burro o birra ad Arenberg, frutti rossi sui Vosgi, fonduta in Savoia e peperoncino sui Pirenei. E anche Nibali, come Tavecchio, non riceve voti. Sarebbe troppo facile ma per motivi opposti.
Un voto invece lo prende Alessandro De Marchi (7,5) detto il rosso di Buia perché è rosso di capelli e perché uno dei suoi primi allenatori, Roberto Bressan, era chiamato il Rosso volante, in quando pistard. Sulla pista, con l’inseguimento a squadre, De Marchi ha raccolto vittorie. Ma in questa rubrica che chiude un bel Tour ci entra perché è stato votato da una giuria internazionale come il corridore più combattivo nell’arco della corsa. Tre erano i candidati: lo svizzero Elmiger, 700 km in fuga, il francese Gautier e De Marchi. «Io i miei km di fuga non li ho contati e comunque per me è stata una sorpresa perché credevo che una giuria in maggioranza francese premiasse Gautier. Sapere che Greg Le-Mond ha indicato me è una soddisfazione che vale più del premio». E’ una targa col n. 1 su fondo rosso oppure comporta anche quattrini? «Non so di preciso, credo 15mila euro che comunque ho lasciato alla squadra per la divisione». Com’è che un corridore si specializza in fughe? «Per temperamento. Normalmente io e Marcato avevamo il compito di aiutare Sagan nelle tappe nervose, gli arrivi allo sprint non sono il mio pane. Negli ultimi due anni ho cercato di migliorarmi in montagna. Il guaio è che in Friuli ci sono pochi corridori, Gasparotto e Cimolai abitano distanti. Mi alleno con quelli della Fiamma Azzurra andando verso Cividale, sconfinando in Slovenia. Prima del Tour sullo Zoncolan sono andato da solo perché non voleva venirci nessuno».
Guidolin lo accompagnerebbe volentieri credo, e io volentieri vedrei Guidolin ct azzurro, ma questo è un altro discorso.
Torno ad ascoltare De Marchi: «Il più è indovinare la fuga giusta, non sempre ci si riesce. A St. Lary sono riuscito a piazzarmi. Per fortuna non mi è successo come a Bauer, ripreso a 30 metri dal traguardo dopo 221 km di fuga». Interrompo il discorso, doveroso ma inutile 9 di indennizzo a Bauer. «Serve fortuna, ma la fortuna bisogna andarsela a cercare» chiosa De Marchi. Troppo attaccante per restare in una squadra italiana. Mi sa che cambierà aria, oltreché maglia.
Dal protagonista di fughe e decorato combattente, non succedeva dai tempi di Bull (Chiappucci) all’ammazzafughe cioè Cheng Ji, primo cinese in gara al Tour e anche primo a terminarlo, sia pure all’ultimo posto, quello che in Italia si chiamava maglia nera ma in Francia è lanterna rossa. Una pacchia per i coloristi francesi del Tour, un cinese lanterna rossa. Ammazzafughe perché il suo compito, nelle prime due ore e se c’era pianura, era di rincorrere le fughe tirando il gruppo. In fuga lui non c’è mai andato. Ha chiuso regolarmente nel gruppetto. Termina a circa 6 ore da Nibali e, nella corsa a chi arrivava ultimo, ha battuto due italiani: Cimolai e Viviani. Largo il margine, 51’, su Cimolai penultimo. L’ultimo pensiero, a dieci anni dalla morte (23 luglio) è per Serge Reggiani, nato a Reggio Emilia, figlio di un parrucchiere costretto ad emigrare nel 1930 per motivi politici prima a Yvetot, poi a Parigi. Dopo aver cercato di fare il baritono, il ciclista e il pugile, Serge sfonda come attore e, più tardi, come cantante. Mingherlino, non bello ma seducente (storia con la cantante Barbara e, più lunga con Romy Schneider) comincia a cantare a quarant’anni suonati. «Un poeta dal cuore immenso» disse Chirac commemorandolo. Il giorno di Nibali sui Campi Elisi ho riascoltato e non per caso una delle sue canzoni più famose. C’est moi, c’est l’italien, cantava Reggiani, e intanto Nibali dava le ultime pedalate.
Gianni Mura